E invece sei ricomparso. Certo, ti ho evocato io. Due bicchieri di un buon rosso mi sono bastati per mandare al diavolo il mio amor proprio e per proporti di andare a prendere qualcosa. “Vieni”, mi hai risposto, “siamo nel locale lesbico del tuo quartiere. C’è anche S.”. Sembravi allegro. Sono caduto volentieri nella solita trappola.
Altro vino. Sorrisi, molte chiacchiere e penso che S. è davvero carino con me. Chiede, si informa, presta attenzione a ciò che dico. Quello che tu non fai mai. Però adesso mi sfiori, sì. L’ho sentita la tua mano sulla mia coscia. Poi mi carezzi, infine quando S. si assenta per un po’, mi baci e io sospiro e mi lascio andare, come fosse passato un incubo. Che succede? Di nuovo il tuo calore mi avvolge e mi rapisce. Continuo a non capire perché. Ancora oggi non capisco perché.
Poi, le logiche conseguenze. Dai, venite a casa, andiamo a dormire, abito molto vicino. S. sorride un po’ imbarazzato: “È già molto tardi, devo rientrare a casa”. “Sì”, dici tu di rincalzo, “anch’io domani devo alzarmi presto”. Insomma, sono l’unico che ha l’aria di non avere un cazzo da fare la mattina dopo. Pazienza.
Non ci sono più avventori, le luci della cucina sono state spente e il barista chatta ormai freneticamente muovendo veloce le dita sul suo cellulare. Le occhiatacce che ci lancia sono rare ma molto eloquenti. Magari lui non si dovrà svegliare all’alba però è evidente che di noi ne ha già pieni i coglioni. Così paghiamo e ci ritroviamo fuori a parlottare. Penso che siamo ormai giunti ai saluti, ognuno andrà per i fatti suoi, è stato molto bello ma è proprio tardi - cazzo che tardi - e fa pure freddo - cazzo che freddo. E invece no. Mi prendi per un braccio e lo stringi ritmicamente: “Sarebbe un problema per te svegliarti presto domattina?”. “Figurati”, ti rispondo io. Scemo, scemo, tre volte scemo.
E così scivoliamo per le strade fredde. Io e S. parliamo di gatti, ma tu te ne stai in silenzio come chi si è già pentito di una proposta che ora appare meno allettante. Lasciamo S. sotto casa sua e in un minuto arriviamo da te. Come abbiamo cominciato? Io ero in cucina e ti aspettavo perché dovevi andare in bagno. Quando sei tornato, ti sei presentato con i pantaloni aperti, un po’ abbassati, il pacco visibile per metà. Poi è stata una corsa verso il letto. Verso la catastrofe che ci aspettava. Non ricordo granché, se non che il tuo dito in culo mi ha provocato più dolore e fastidio del tuo cazzo. Il tuo splendido cazzo.
Ho messo le mani là dove sapevo che ti avrebbero regalato sospiri e occhi chiusi e testa infossata nel cuscino e sì e sì e ancora. I tuoi capezzoli. Il solco tra le natiche. Il buco.
Non potevo muovermi mentre mi penetravi. Mi volevi docile e mansueto, come sempre. Però non funzionava. “Sono molto stanco”. Anch’io. Allora ti sei masturbato e sei venuto in poche gocce bianche e il poco piacere che c’è stato è stato tutto tuo.
Poi hai dormito. Ci siamo risvegliati lentamente, mentre tutto attorno rumoreggiavano già i vicini, armeggiando con docce, lavandini, fon, spicciati che fai tardi. E mi hai abbracciato ancora mezzo addormentato. Molle, caldo. Mi hai accarezzato di nuovo. Il cazzo mi si è gonfiato mentre sentivo il tuo, già duro, premere contro il mio culo. Ed è la grande scoperta di stamattina: sei più sensuale in dormiveglia. Il miraggio di un’altra scopata, questa volta decente, scompare coi primi raggi di luce che filtrano dalla persiana. E in un attimo ti odio. Non dici una parola ma ti alzi dal letto. Ti osservo, mi ignori.
In un tempo record siamo già vestiti e catapultati fuori casa dal tuo ritardo. Saliamo in macchina, stretti nei nostri giubbotti e in un silenzio che sembra quasi rancoroso. Il saluto è ancora peggio e in italiano suona come un “arrivederci”. E grazie al cazzo.
Altro vino. Sorrisi, molte chiacchiere e penso che S. è davvero carino con me. Chiede, si informa, presta attenzione a ciò che dico. Quello che tu non fai mai. Però adesso mi sfiori, sì. L’ho sentita la tua mano sulla mia coscia. Poi mi carezzi, infine quando S. si assenta per un po’, mi baci e io sospiro e mi lascio andare, come fosse passato un incubo. Che succede? Di nuovo il tuo calore mi avvolge e mi rapisce. Continuo a non capire perché. Ancora oggi non capisco perché.
Poi, le logiche conseguenze. Dai, venite a casa, andiamo a dormire, abito molto vicino. S. sorride un po’ imbarazzato: “È già molto tardi, devo rientrare a casa”. “Sì”, dici tu di rincalzo, “anch’io domani devo alzarmi presto”. Insomma, sono l’unico che ha l’aria di non avere un cazzo da fare la mattina dopo. Pazienza.
Non ci sono più avventori, le luci della cucina sono state spente e il barista chatta ormai freneticamente muovendo veloce le dita sul suo cellulare. Le occhiatacce che ci lancia sono rare ma molto eloquenti. Magari lui non si dovrà svegliare all’alba però è evidente che di noi ne ha già pieni i coglioni. Così paghiamo e ci ritroviamo fuori a parlottare. Penso che siamo ormai giunti ai saluti, ognuno andrà per i fatti suoi, è stato molto bello ma è proprio tardi - cazzo che tardi - e fa pure freddo - cazzo che freddo. E invece no. Mi prendi per un braccio e lo stringi ritmicamente: “Sarebbe un problema per te svegliarti presto domattina?”. “Figurati”, ti rispondo io. Scemo, scemo, tre volte scemo.
E così scivoliamo per le strade fredde. Io e S. parliamo di gatti, ma tu te ne stai in silenzio come chi si è già pentito di una proposta che ora appare meno allettante. Lasciamo S. sotto casa sua e in un minuto arriviamo da te. Come abbiamo cominciato? Io ero in cucina e ti aspettavo perché dovevi andare in bagno. Quando sei tornato, ti sei presentato con i pantaloni aperti, un po’ abbassati, il pacco visibile per metà. Poi è stata una corsa verso il letto. Verso la catastrofe che ci aspettava. Non ricordo granché, se non che il tuo dito in culo mi ha provocato più dolore e fastidio del tuo cazzo. Il tuo splendido cazzo.
Ho messo le mani là dove sapevo che ti avrebbero regalato sospiri e occhi chiusi e testa infossata nel cuscino e sì e sì e ancora. I tuoi capezzoli. Il solco tra le natiche. Il buco.
Non potevo muovermi mentre mi penetravi. Mi volevi docile e mansueto, come sempre. Però non funzionava. “Sono molto stanco”. Anch’io. Allora ti sei masturbato e sei venuto in poche gocce bianche e il poco piacere che c’è stato è stato tutto tuo.
Poi hai dormito. Ci siamo risvegliati lentamente, mentre tutto attorno rumoreggiavano già i vicini, armeggiando con docce, lavandini, fon, spicciati che fai tardi. E mi hai abbracciato ancora mezzo addormentato. Molle, caldo. Mi hai accarezzato di nuovo. Il cazzo mi si è gonfiato mentre sentivo il tuo, già duro, premere contro il mio culo. Ed è la grande scoperta di stamattina: sei più sensuale in dormiveglia. Il miraggio di un’altra scopata, questa volta decente, scompare coi primi raggi di luce che filtrano dalla persiana. E in un attimo ti odio. Non dici una parola ma ti alzi dal letto. Ti osservo, mi ignori.
In un tempo record siamo già vestiti e catapultati fuori casa dal tuo ritardo. Saliamo in macchina, stretti nei nostri giubbotti e in un silenzio che sembra quasi rancoroso. Il saluto è ancora peggio e in italiano suona come un “arrivederci”. E grazie al cazzo.
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