martedì 30 ottobre 2012

La sostenibile leggerezza delle categorie

Come eravamo. Flash-back su episodi della mia vita sessuale passata. In ognuno, un uomo che ha meritato che io mi ricordassi di lui. Nel bene, il più delle volte. Nel male, altre.

I.

Aveva i capelli neri e lunghi fino alle spalle. Li portava sciolti. Occhi color nocciola, pizzetto. Vari piercing alle orecchie. Vestiva sempre di nero, in uno stile gotico addomesticato. Aveva allora ventun anni e, nonostante la statura, un po’ inferiore alla media maschile, e l’aspetto gracile e quasi emaciato del suo corpo, lo dominavano energia e irrequietezza. Quella sua forza mi piaceva, il suo vigore riusciva a contagiarmi perché si accompagnava sempre a massicce dosi di freschezza e di curiosità.
Si comportava con disinvolta spontaneità. Aveva la ragazza ed era eterosessuale. All’inizio pensavo che fosse la solita messa in scena per nascondere, innanzitutto a sé stesso, la sua vera essenza. Certo, dal punto di vista strettamente “scientifico”, i nostri erano rapporti omosessuali. A quei tempi, avrei detto che questo era sufficiente a definirlo omosessuale (velato) ma poi, malgrado i miei pregiudizi, dovetti ammettere che la sua era, probabilmente, “solo” una notevole apertura verso esperienze anche gay, ma senza conseguenze sui suoi gusti - diciamo così - “primari”, che restavano orientati verso il sesso femminile. Bisessualità incipiente? PolisessualitàPansessualità?
Rinunciai presto a cercare la risposta a queste domande, semplicemente perché cominciarono a sembrarmi superflue. Soprattutto, ciò che più conta, sembravano inutili a lui, che con tutta evidenza viveva quello che gli stava succedendo con sovrana naturalezza. Lo avevo rimorchiato su un sito dove si mescolavano gioiosamente varie “categorie” sessuali e nel quale lui cercava esperienze con coppie etero. Ciò che lo attrasse a me, credo, fu la mia sfacciataggine. Diciamo pure la mia troiaggine, ché tanto è quello che penso e che pensate anche voi. 
La prima volta che ci vedemmo, mentre si spogliava, mi avvertì: “Ah, non te l’ho detto, però... io non bacio. Spero non sia un problema”. Mi misi in ginocchio davanti a lui e premetti il viso contro i suoi slip bianchi, inspirando forte. “Non ti preoccupare. Faremo altro”, gli risposi sorridendo. Il contatto della mia testa contro il suo pacco lo fece gonfiare. Sfilandosi gli slip e lasciando libero davanti alla mia bocca il suo cazzo duro: “Non pensavo di eccitarmi così facilmente con te”, disse.
Gli incontri - cinque o sei, ora non ricordo - avvennero sempre a casa mia. Il suo uccello aveva una lunghezza nella media e non era grosso; aveva le palle piccole. Mi piaceva succhiarglielo, però godevo ancor di più quando me lo sbatteva dietro. Prima di venire poteva spingere dentro di me per tempi biblici cercando, senza riuscirci quasi mai, di controllare la sua irruenza. Quando mi faceva mettere completamente disteso a pancia in giù e con le gambe chiuse e il buco più stretto possibile, voleva dire che si avvicinava il suo orgasmo. Mi montava da dietro sostenendosi con le braccia tese puntate sul letto, la testa reclinata verso il basso, a osservare come entrava il cazzo dentro il mio culo, mentre le punte dei suoi capelli sfioravano la mia schiena.
La prima volta mi chiese, nella foga degli attimi prima dell’esplosione finale: “Posso venirti in bocca?”. Risposi di no. La seconda volta non chiese. “Dài, che ti sborro in bocca”, disse. Resistetti. Ma già la terza volta, ancor prima di vederci, mi disse che gli sarebbe piaciuto venire così e da allora glielo concessi. Voleva vedere il mio viso sporco del suo seme, e premere il cazzo in fondo alla mia gola, per lasciarci le ultime gocce di sborra.
Poi me ne andai da quella casa e ci perdemmo di vista. Un anno e mezzo fa mi scrisse per sapere se sarei tornato nella sua città, perché gli sarebbe piaciuto rivedermi. Non sembrava cambiato. Mi tornò in mente che proprio con lui avevo imparato a relativizzare, non solo in teoria ma anche in pratica, il peso delle categorie.
P.S. Sì, lo so, il film non c’entra nulla con il post. Embè?

domenica 28 ottobre 2012

Il manzo, finalmente

Incontenibile fame di cazzo. Voglia di maneggiare un bell’attrezzo. Di farmi sbattere. Di maschio. Per ottimizzare i tempi, lancio tre piattaforme contemporaneamente: invado il web. Il trucco è: esserci e vedere l’effetto che fa, senza smanettare. Almeno oggi. Infatti, dopo un po’, arriva un messaggio di Pe. Da quanto tempo mi ero ripromesso d’incontrare questo manzetto versatile dalla faccia simpatica, brucante alla bellezza di 4,7 chilometri da casa mia? Toh, giusto un mese, da quando, giorno più giorno meno, sono entrato nel tunnel dell’astinenza imposta dai miei impegni. Pesanti impegni.
L’uscita di emergenza si materializza dunque con un bell’“Hey, Milk, come va?”. 
“Sono stato occupato in questi ultimi giorni, adesso va bene”. 
“Sì, molto occupato...”. Allude. Me lo ricordavo spigliato, infatti.
“Dico sul serio. Adesso ho voglia di recuperare il tempo perduto. Quando ci vediamo io e te?”.

È più alto di me, però non troppo. Ha un bel sorriso. Ha la testa rapata e un po’ di barba. Ha gli occhi azzurri. È più corpulento di me. Non lascia emergere le emozioni che sente. Lo avvolge una sottilissima pellicola di razionalità che fa da precaria barriera tra il lato esteriore (i gesti, calmi e posati, il tono della voce, mai alterato da un turbamento, la conversazione, che scorre liscia e tranquilla) e quello interiore, che sembra ribollire: si arrabbia, si entusiasma, si dispera, piange ogni tanto, di gioia o di felicità, questo ragazzo che adesso continua a farmi domande, parlando del più e del meno, mentre con la mano mi spinge a distendermi sul letto, si corica al mio fianco, solleva la mia maglietta e poi morde delicatamente e lecca la mia pancia?
Razionalità sulla pelle e passionalità nelle viscere. Io rispondo all’interrogazione meglio che posso, ma il corpo già reagisce alle sue carezze e il cervello lo segue. Pe. è metodico. Tic tlac tic, mi sbottona i jeans e zac, me li sfila insieme agli slip fino al ginocchio. Solleva le mie gambe e affonda rapido la faccia tra le natiche. Lecca, morde, dà piccoli colpi di lingua al buco, lo sente schiudersi. Mugugno. La dedizione di questo trentenne per il mio culo è straordinaria. Gli piace lavorarselo con la bocca, e si vede. Il piacere che prova dev’essere almeno pari al mio. Mantenendo la stessa posizione, mi tolgo pantaloni, slip e calze, mentre lui continua imperterrito e punta i suoi occhi direttamente sul mio viso. 
A un certo punto mi fa girare e mi mette a pancia in giù. Sollevo un po’ il culo e lui ricomincia il lavoretto. Mi sento ancor più esposto alle sue voglie e inizio a sentire il mio respiro accelerare, proprio come il suo. Cerco di togliergli la maglietta, se la sfila lui e la getta sul letto, tornando immediatamente alla sua occupazione. Adesso scende con la lingua a leccare le palle, afferra il mio uccello semi-eretto tirandolo a sé, poi lo succhia. Passa dal cazzo alle palle al culo e poi di nuovo giù, andata e ritorno per tappe, più volte, finché il mio cazzo si fa talmente duro che il giochino non riesce più.
Allora mi giro, lui si mette in piedi al bordo del letto e adesso tocca a me sbottonargli i pantaloni e abbassarglieli. La vista del rigonfiamento dei suoi calzoncini neri aderenti mi  eccita e rende impazienti i miei gesti. Lietissima sorpresa: una lunghezza perfettamente nella media ma lo spessore... Lo afferro dunque con la mano, avido, e lancio a Pe. uno sguardo eloquente, di lussuria e di riconoscenza, per avermi portato a casa questo bene della natura.
È completamente depilato: il pube è liscio, le palle pure. Lo succhio e mugolo, mugolo e succhio, mentre impugno i suoi coglioni, belli grossi, e li tiro verso il basso. Quasi senza rendermene conto, sto sbavando tanto che le lenzuola si stanno bagnando della mia saliva. Dopo un po’, Pe. stacca il cazzo dalla mia bocca e si distende sul letto a pancia in su. Poi mi guarda sorridendo, invitandomi implicitamente a continuare. E io allora mi distendo fra le sue gambe, sostenendomi con i gomiti e ricomincio a pompare scendendo con le labbra quasi fino alla base del cazzone. Lecco anche le sue palle e le succhio delicatamente, prima una e poi l’altra, masturbandolo con una mano. Spinge la mia testa contro i suoi coglioni, allora cerco di far pressione, con la bocca e la lingua, tra le sue palle e il buco del culo.
È molto eccitato ed io sono ormai più che pronto. Mi alzo, prendo dal cassetto il lubrificante e lui mi lancia un cenno affermativo del volto, come a dire: “Perché no, se proprio vuoi, si può fare”. 
“Lascia stare”, mi dice quando mi vede prendere anche i preservativi, “ne ho portato uno io”, e si alza per frugare nelle tasche della sua giacca nera di pelle che ha appoggiato sul divano. Io mi sistemo quindi sul letto, disteso a pancia in giù ma con il culo sporgente, sicché quando torna, Pe. si inginocchia dietro di me e comincia tutte le operazioni preliminari: preme il tubetto di gel facendone cadere un filo dall’alto, sul mio buco; con due dita lo sparge attorno e un po’ dentro; indossa il preservativo e poi lubrifica l’uccello; infine si china su di me.
“È un mese che non scopo”, mi dice. Che coincidenza!
“Anch’io!”.
“Allora sborreremo entrambi subito... ma lo rifaremo un’altra volta più tardi”, mi lancia lui,  serio, come se stesse componendo il planning di una giornata lavorativa e non invece impugnando il cazzo, come effettivamente fa, per puntarlo contro il mio buco. “Ok, capo”, mi verrebbe da dirgli, ma il mio cuore batte forte e adesso c’è silenzio e concentrazione: voglio sentirlo dentro.
Ci prova una volta, una seconda, una terza. Poi si mette in piedi vicino al letto e mi tira per i fianchi. “Vieni qua!”, mi dice. Obbedisco e assumo la posizione a pecorina. “Bravo. All’inizio mi è sempre un po’ difficile entrare”. Non avevo dubbi. Ma già lo sento scivolare dentro piano, quasi tutto. Ed ora si muove lento, avanti e indietro, mentre lo incoraggio ansimando. Il ritmo inizia a farsi più sostenuto, Pe. picchia duro finché si ferma: “Vuoi cambiare posizione?”, mi chiede. “Ehm... No”, rispondo io, un po’ interdetto, “a me piace... Continua, dài!”. E mi apre per bene. Di tanto in tanto, allungo una mano dietro, per stringergli una natica e pregarlo di dare colpi più forti. Cosa che puntualmente fa. 
Sentendomi gemere, mi dice: “Pare che ti stia divertendo molto...!”. 
“Sì”, gli rispondo, “perché? Tu no?”. 
“Anche il solo fatto di sentire come ti piace, mi fa godere. In più hai un culo...”. E continua, fortunatamente, a fotterlo.
Ci sono momenti in cui la foga che mette nel chiavarmi raggiunge un tale livello che provoca in me un piacere insopportabile, alla soglia dell’orgasmo. Dopo un bel po’ di tempo, cambia ritmo e imprime dei colpi secchi e profondi. Grido senza ritegno. Mi sento trafitto dal suo palo duro e sono completamente abbandonato al suo dominio. Dopo aver affondato per l’ennesima volta l’uccello fino a far sbattere i coglioni contro il mio culo, sfila il cazzo e si distende sul letto. S’impugna il bastone, mi guarda sorridendo e: “Siediti qui”, ordina. E così faccio, dondolando il culo su e giù per far entrare e uscire il suo cazzo, mentre lui riposa un po’. Tuttavia, dopo pochi minuti, ricomincia a muovere il bacino e riprende il controllo della penetrazione, prendendomi il culo fra le mani e tenendo le mie natiche più separate possibile.
Rinvigorito, mi fa rimettere a pecorina e si sistema in ginocchio sul letto, dietro di me e mi fotte. Dopo un po’, alza il ginocchio sinistro e lo flette portandolo vicino al mio fianco, lasciando il destro appoggiato sul letto. Con una presa molto forte, mi afferra per le spalle e inizia a dare colpi di bacino durissimi. “Ti piace, eh?”, mi chiede. La mia risposta è affermativa, ma non so quanto comprensibile. Penso di essere ormai giunto al massimo del godimento, ma Pe. tira su anche l’altro ginocchio e m’incula nella posizione più animalesca che io conosca, sporgendosi in avanti, verso di me. Grido che mi piace e mi sembra quasi d’impazzire. Di colpo, sfila il cazzo e scatta in piedi, sul letto. “È troppo eccitante”, mi dice, “se continuo, sborro. Voglio bere un po’ d’acqua”.
“Sì, come no”, dico io, e faccio per alzarmi e andare in cucina.
“Non ti preoccupare, ce l’ho”. Si allontana un po’ e preleva una bottiglietta dalla giacca di Eta Beta. Previdente Pe. Mentre sorseggia la sua acqua, io mi rimetto sul letto a pecorina e osservo con sguardo lascivo il suo bel corpo e quel cazzo duro che nel frattempo non sta perdendo neanche un po’ del suo vigore. Contemporaneamente passo una mano sopra il buco, che giace abbandonato, aperto e bagnato, in mezzo al culo. Guardandomi e accennando con il capo proprio al buco, Pe. coglie l’occasione per fare una prima stima dei danni: “Certo che adesso ci potrebbe passare un treno!”, lancia.
“È che il tuo cazzo è davvero grosso”, gli rispondo.
“Oh, beh, credo che questo culo ne abbia presi di ben più grossi”. Scaltro Pe.
“Qualcuno...”, ammetto io. 
Ma è già dietro di me e ricomincia l’assalto, tenendo ben stretti i miei fianchi fra le sue mani e muovendosi rapido. “Mettiti come prima, dài, prendimi come un animale”, lo imploro io. “Lo vuoi così?”, mi chiede, mentre solleva un’altra volta le ginocchia mettendole parallele ai miei fianchi. “Sì, così!”, confermo io, mentre mi monta. Lo sento ansimare e capisco che entrambi siamo ormai al limite.
“Vuoi venire? A me manca pochissimo”, gli dico.
“Va bene. Mettiti vicino alla testiera, appoggiati così, bravo”. 
Mi vuole vedere a novanta gradi esatti, la schiena arcuata e il culo ben sporto verso di lui. M’incula con sempre maggiore forza e con la coda dell’occhio lo vedo concentrato a osservare il suo cazzo che entra ed esce dal mio culo, finché grida: “Vengo! Io vengo!” e il ritmo si fa rapidissimo, i suoi gemiti si confondono con i miei, i nostri muscoli si contraggono e lasciamo finalmente andare, con il liquido bianco, tutta la tensione.

“Lo prendi spesso in culo?”, gli chiedo.
“Non tanto quanto vorrei, sono più spesso attivo”.
“Bravo, che come passivo basto io...”.
“In ogni caso, non credo riuscirò mai a essere così passivo come te. O almeno, per farlo dovrei allenarmi molto prima. Davvero... non so come fai a resistere tanto”.
“Mi viene naturale. E mi alleno abbastanza, sì, ma solo con cazzi veri”.
Ridiamo. Apriamo una bottiglia alla salute nostra e sciogliamo nel vino rosso un piccolo distillato delle nostre vite.

venerdì 26 ottobre 2012

Si riparte

“Spero proprio che si spenga”. È l’ultimo pensiero di forma compiuta che ho avuto questa notte prima di addormentarmi, dopo aver constatato che la batteria del cellulare era ormai agli sgoccioli e aver immediatamente scartato l’idea - banale e, ieri, irrealizzabile - di alzarmi e prendere il cavo per ricaricarlo. E così il cellulare si è spento. E io stamattina sono fresco, quasi come una rosa.
Immersione ed emersione. Mi trovo adesso, finalmente, nella seconda fase. Mentre te ne stai a galla e magari cerchi di nuotare fino alla boa successiva, c’è sempre qualcuno o qualcosa che spinge verso il basso e ti fa fare glu-glu-glu. Adesso che, tornato in superficie, boccheggio guardandomi intorno, vedo un’isolotto dove potrei approdare, a meno che i venti e le maree avversi non mi facciano prendere un’altra direzione. Sull’isolotto potrei passare due annetti mica male, con qualche incerta soddisfazione, molte fatiche e pochi dindini. Ferie, avete detto? Credo le abbiano abolite già da un pezzo. Null’altro all’orizzonte, per ora. Ah, sì: C. continua a volermi bene ma già non si scopa più; Paj mi manda whatsapp interlocutori ma io non sono così sicuro di volerlo rivedere; J. se n’è andato per sei mesi lontano, molto lontano, troppo lontano. E ho cambiato location.
Un punto fermo: l’astinenza sessuale cui mi sono obbligato in questi giorni termina qui. Meno male.

sabato 22 settembre 2012

Come si chiamava? Ah, sì... strim ov cònsciusnes

adesso me lo dice già lo sapevo che questo momento doveva arrivare come sempre mi faccio fregare dai miei sentimenti non ci sono cazzi è sempre così e sempre sarà non devo mostrarmi teso controllati per favore ci sono tanti modi di dire le cose userà quello giusto però che bella faccia tosta dirmi adesso che mi vede teso no guarda sono proprio contento continua pure è sempre la solita storia ma se sono interessante e attraente per te  perché non ti interesso però ci stiamo conoscendo va già bene così è un passo fiducia mancanza di fiducia adesso si complica adesso faccio un casino ma figurati sta dicendo che non sente quello che senti tu che fastidio la facesse più breve sì così più diretto che pena resisti dove l’ho già sentita questa cosa chi mi ricorda dicono tutti la stessa cosa e anche questo si è raccontato e mi ha dato molto più che ad altri ragazzi grazie al cazzo adesso vuoi che ti ringrazi per questo troppo buono ma quando finisce questa tortura mi alzo e me ne vado sì me ne vado no resto calmati stai seduto qui inspira a fondo senti che aria buona no non distrarti non far vedere le emozioni ma ci chiamiamo sì sì certo come no mamma mia che freddo sento che forte è stato che coglione che sono possibile ci resti sempre così adesso una bella dormita che vada a cagare tutti gli egocentrici a me devono capitare non voglio ricadere nello stesso errore lascia perdere calmati hai cose più importati da fare calmati

giovedì 20 settembre 2012

Il ratto

Il ratto si trova sotto il letto. Fa rumore, sta morsicando qualcosa. Perché è lì? Sta nascosto, ha paura. Fugge dallo sguardo dell’uomo disteso sul letto. Perché teme di essere cacciato. Si è introdotto in una casa che non è sua. È brutto, ma resistente. Fastidioso, ma tenace. Potrebbe essere colpito o persino ucciso dal padrone di quella casa. Eliminato, fatto sparire. Come se non fosse mai esistito. Per paura di essere molesto, ecco perché se ne sta là sotto, il ratto.

*****
“Se tu fossi il ratto...?”

*****

Apre il pacchetto e me ne porge una. “Grazie”, gli dico. Accendiamo. Poco prima è avvenuto l’incontro fintamente fortuito, nella piazza che sta appena sopra questo piccolo parco verde in mezzo alla città. Un messaggio inviato con studiata nonchalance: “Vado a leggere il giornale nella solita piazza”. Fine della batteria, il telefono si spegne. Scrive, invano: “Quale?”. Poi: “Quale piazza?”. Prova a chiamare tre volte. Bip-bip-bip. Nemmeno la segreteria. Eppure, dopo qualche minuto, è già lì. Col cagnone appresso. Con la maglietta rosa addosso. Le collanine attorno al collo, i braccialetti di cuoio, gli occhiali neri che non lasciano intravedere i suoi occhi profondi, scuri, aguzzi. Con la pelle abbronzata. Con i jeans rotti davanti e perfetti sul culo. Con le sue spalle larghe, pista d’atterraggio per la mia bocca. “Vado nel parco qui vicino, vuoi venire?”. No, Paj, non voglio, figurati. Me ne voglio restare qui solo, in questa piazza di merda, perché voglio godermi lo smog delle macchine che passano e stringere gli occhi fino a chiuderli per il troppo sole che mi sta picchiando contro (no, io non porto occhiali, né neri né a specchio). E tu vai pure, ché il messaggio l’ho scritto così per fare.
Ed eccoci allora nel parco. A parlare di me. Di me. Di lui. Di me. Di me. Di me. “È molto onesto quello che dici”. “Cerco di essere onesto, sì”, rispondo io.
Fermare il movimento, restare intrappolati: impossibile, sarebbe morire. Correre sempre come pazzi, senza mai essere soddisfatti della meta raggiunta: esigenze impossibili, richieste e pagate a caro prezzo. È stato ferito come lo sono io ora. È guarito? Sto guarendo.
“Hai da mangiare a casa?”. Attenzione, domanda indiretta. Non colgo.
“Sì”.
“Intendevo dire: vuoi pranzare a casa mia?”.
L’ombra su di lui è perfetta, la luce intorno pare aumentare. Sorrido di gusto. Assaporo lo sguardo.
“Sì”.
Non hai tagliatelle? Gli spaghetti andranno bene. Prepariamo il pranzo insieme. Un po’ di vino, tutto bene.
Poi dice: “Sono stanco, vorrei dormire un po’. Dormi anche tu?”.
“Potrei leggere il giornale, mentre riposi”.
L’uso diplomatico del verbo “dormire” non è mai stato il mio forte. Dormire per me è chiudere gli occhi e abbandonarsi a Morfeo. A Morfeo, non a me.
“Puoi venire a dormire anche tu e il giornale lo leggi dopo”. Era dunque un dolce eufemismo. Faccio un cenno affermativo con la testa.
“Non ti senti obbligato? Sei libero di scegliere, vero?”, dice Paj, osservandomi dal basso delle mie braccia, dove ha messo la testa, verso i miei occhi.
“Certo”, dico io.
Mi distendo per primo, lasciandomi addosso solo gli slip. Quelli leggeri col bordo viola. Si distende anche lui, completamente nudo. Insinua una mano sotto i miei slip e li fa scivolare via.
“Niente tessili, per favore”. E mi sorride. E mi bacia. Ci abbracciamo e già il nostro respiro diventa affannoso. Perché abbiamo aspettato tanto? A morderci l’incavo del collo, a leccarci la schiena e le orecchie come animali, a mangiarci le bocche e i capezzoli come se dovessimo sbranare i nostri corpi.
L’impossibile sfida di tenere tutto il suo cazzo in bocca, in gola, mi fa girar la testa e per questo mi impegno. Lecco per bene, ma poi succhio, sbocchino, provo delle gole profonde e lo sento mugolare ogni volta che la sua cappella sfrega la mia gola, il mio palato, ogni volta che la mia lingua gli regala piacere.
“Come ti piace far bocchini...”, mi dice guardandomi con occhi colmi di lascivia.
Rispondo gemendo, la bocca piena del gran pezzo di carne che si ritrova fra le gambe il bel Paj.
È disteso, allunga le braccia verso di me, mi mette due mani sulla testa e muove il bacino per scoparmi la bocca. Ce l’ha così grande che quasi soffoco, trattenendo il respiro perché possa mettermelo più in fondo che può. Quando si stanca, ricomincio io, impugnando l’asta alla base e muovendo la testa su e giù, facendo scorrere la bocca sul suo cazzo con ancor più impeto, finché con uno scatto si mette seduto e allontana la mia testa.
“Mi piace come me lo succhi, Milk”.
Gli sorrido: “E a me piace succhiartelo. Un casino”.
Mi fa mettere a pecora e comincia a dare grandi leccate al buco, alle natiche, fino a che il mio culo non mostra chiari i segni della mia eccitazione, dilatandosi. Allora ci infila un dito, spingendo più in fondo che può. Lo estrae, se lo lecca e poi lo rituffa dentro di me. E poi lo estrae di nuovo, s’impugna il cazzo, grande e durissimo, e con quello schiaffeggia le mie natiche, poi passa e ripassa la cappella in mezzo, sfregandola più volte contro il mio buco.
“Non ti preoccupare, non ti fotto senza preservativo... sto solo giocando”.
“Gioca, Paj, gioca che mi piace...”.
Ma gli eventi prendono un’altra piega per un colpo di testa mio. Se ti piace come succhio, questa volta potrebbe andare diversamente. Allora mi sfilo dalle sue grinfie, mi metto sotto di lui a pancia in su, e mi rimetto in bocca il suo cazzo. Ho di nuovo voglia di spompinarlo.
Lui allora si distende di nuovo e io, accovacciato fra le sue gambe, ricomincio il servizietto, mentre con entrambe le mani gli tormento i capezzoli.
Ad un certo punto, mi lascio scivolare oltre il bordo del letto, mi metto in ginocchio sul pavimento e lo invito a mettersi in piedi davanti a me. Gli lecco i coglioni, mentre lui si mena il cazzo. Poi lo punta sulle mie labbra, io le schiudo e lo succhio. Più di una volta lo estrae e, impugnandolo, lo passa sulle mia labbra o lo sbatte contro il mio viso e poi me lo rimette in bocca.
Finché: “Se continuiamo così io vengo, mi manca pochissimo”.
Allora cerco di riprendere in mano la situazione, gli afferro il cazzo e lo sbocchino, però  molto lentamente, fermandomi a giocare con la lingua sulla cappella.
Si distende di nuovo, con le gambe piegate oltre il bordo del letto e i piedi che toccano il pavimento. Io rimango inginocchiato davanti a lui e lo spompino. Lo sento gemere sempre più forte e lo vedo strizzarsi i capezzoli con forza. Con la sua nerchia in bocca, scivolando su e giù, cerco di contemplare il suo bellissimo corpo. Sono eccitato, ce l’ho duro.
Quando faccio scorrere la lingua lungo tutto il suo cazzo, scendo a leccare i coglioni e poi comincio a succhiarli alternativamente, lo sento incoraggiarmi, ansimando: “Le palle, sì, così...”. Comincia a masturbarsi mentre io continuo, finché lo sento tremare, i muscoli contratti, e gemere forte. Lo vedo schizzare la sborra a pochi centimetri da me. Ne percepisco l’odore e non resisto più. Leccandogli le palle, mi tocco il cazzo, me lo meno e in breve tempo anch’io vengo, macchiando i suoi pantaloni corti, incautamente gettati in terra.
Gli porgo dei fazzolettini perché si asciughi. Dopo, ci addormentiamo nudi, abbracciati l’un l’altro. È la nostra siesta.

martedì 11 settembre 2012

Nell'anima

Il giorno dopo è un whatsappear discreto, very light and sex free. Tutto bene? Sì, tu? Che fai? Un po’ di questo e un po’ di quello. Poi questo e quell’altro. Ah, sì? E io questo e quest’altro... E l’interruttore si spegne. La fiamma si è stemperata con quel frettoloso saluto alle due del mattino sulla sua porta, poi s’è spenta nella notte fresca. Il lumicino frega niente a nessuno: qui si vuole l’incendio.
Paj resta sotto traccia. Dalla superficie sembra essere scivolato via, la distanza appare incolmabile dopo il banchetto. E allora s’acquatta dentro di me, sotto la mia pelle. Riposa e intanto germina. E cresce, cresce, finché il mio tarlo, per manifestarmi pietà, gli scrive: “Ti va di vederci oggi?”. La risposta è immediata. Sua. “Sì”. E, dopo il silenzio mio che ha già imparato a conoscere (“Compromettiti!”): “Che proponi?”. Di uscire. Alle nove di sera. Di andare in un posto non lontano, di rimanere nel quartiere. Non allontaniamoci troppo dai rifugi.
È il massimo che posso fare, il locale preciso lo scelga pure lui. Sia chiaro, Milk - mi dico: lo faccio perché mi piace starlo ad ascoltare, raccontarci le nostre storie e stuzzicare i nostri cervelli alla ricerca di un’anima. Lo faccio perché con lui, proprio con lui, questo è un gioco che riesce molto bene. La realtà, però, almeno per me, parrebbe essere meno metafisica: salterei i preamboli e me ne starei in camera con lui ore ed ore. Un giorno intero, o due. Non solo scopando, no: facendo anche un po’ di filosofia da boudoir, terapia sul lettone. Ci si addice, gli si addice, non c’è che dire: un colpo all’anima e un altro al...
Eppure, stanotte si è deciso così, un’altra volta. Ci troviamo davanti al teatro e dopo pochi passi intuisco che immancabilmente si cambierà quartiere. 
“Ho deciso di portarti in un posto dove fanno degli spaghetti alla bolognese da leccarsi i baffi!”, spara. 
“Molto coraggioso da parte tua”, dico io. 
“Era una battuta”. 
Tiro un sospiro di sollievo. Ha una piccola sorpresa per me: una vecchia taverna nel cuore della città, avventori che gridano, cucina modesta però tipica di una regione che - sorpresa numero due - adoriamo entrambi. Ecco sì, parliamo molto. La birra va bene per rinfrescarci un po’ all’inizio, ma poi è meglio provare il vino bianco di laggiù. Mangiamo dagli stessi piatti. Mi dice che cosa ha scoperto di me e, attraverso l’incontro dell’altroieri, cosa ha scoperto di sé. Gioco lo stesso gioco e si finisce a baciarci. Ad abbracciarci. E a baciarci nuovamente. La sincerità reciproca che credo d’intuire, e che non risparmia nulla, ci rende sempre più complici. Dice che quando mi vede emozionato, gli viene il cazzo duro.
Alla fine un liquore preso sulla porta del locale, avvolti dagli schiamazzi che vengono da dentro. Sigaretta. Un’altra. 
“Davvero conosci questa canzone?”. 
“Sì”, gli dico io. 
“Cantala!”. 
“Tu sei matto”. 
“Perché? Dài, cantala!... Niente ti devo, niente ti chiedo... dài!”. 
“Me ne vado da te, dimenticami adesso”. 
“Sìiii...” e ride, “sì, continua... Ho pagato in soldoni...”. 
“... il tuo corpo dalla pelle scura. Non maledirmi contadina, che siamo pari”. 
Ride di gusto. E allora insieme: “Non ti amo, non mi amare...”.
Migriamo un po’ alticci verso il bar dove il suo più caro amico, quello col quale ha sempre condiviso tutto fin dai tempi delle elementari, ha lavorato. Se n’è andato via, a cercar fortuna in un’altra città, sicché Paj soffre, sente chiudersi letteralmente un’intera fase della sua vita. Per finire di comporre la geografia di un tassello della sua storia, ci fiondiamo in un altro locale, molto più vecchio, dove dice di aver passato “anni”.
Una famiglia umile, povera, numerosa. I sacrifici, gli studi, la testardaggine e le vittorie, le conquiste. Il senso di colpa: non puoi essere contento di aver fatto qualcosa per te, perché il tuo bene l’ha voluto Dio. Non è merito tuo. La tua presunzione va punita. Sii infelice. Oppure pentiti, ma soprattutto, liberati delle tue responsabilità. Ci pensa Lui. Sai cosa? La più grande ideologia terrorista mai apparsa nella storia dell’umanità, per me, è senza dubbio il cattolicesimo. Concordo. Sì. Ma il secondo gin tonic comincia a sembrare eccessivo pure a me. E così lo abbandoniamo sul tavolino e ce ne andiamo abbracciati, l’uomo alto ed io, avviati alla conclusione che stiamo desiderando.
Il divano del suo saloncino non è male, soprattutto quando toglie i cuscini verticali e ci stiamo sopra in due. Abbracciati, avvinghiati, bacianti, mordenti, leccanti. Esploranti participi rari. “Perché non andiamo nel letto? Si sta più comodi...”. Sì Paj. Stenditi su di me, rotolati con me fra le lenzuola, fammi sentire come mi lecchi il buco, come la tua barba si sfrega contro il mio culo. Come risali bene con la lingua fino alle palle e che sguardo da ragazzo cattivo hai mentre mi guardi succhiandomi il cazzo. Continua. Continua. Vuoi vedere che si apre così tanto che me lo sbatti dentro in un sol colpo?
Ma no. Paj risale verso la mia testa e mi sbatte in faccia il suo uccello. I suoi coglioni. Meglio che posso, lo impugno e lo porto in bocca. Comincio un lavoretto che lo fa star bene, che lo fa sussurrare: “Come spompini...”. Dopo un bel po’, si distende a pancia in su perché vuole leccarmi il buco mentre io, disteso sopra di lui in senso contrario, gioco con la sua nerchia, così lunga e grossa che posso metterci due mani o tenerla alla base e farla ondeggiare sfregando la cappella sulle mie labbra. Spinge il bacino verso l’alto e questo vuol dire: fammi un bocchino. Mano ben stretta alla base, comincio a pompare. Sempre più forte.
Stiamo gemendo entrambi. “Fermati, fermati!”, mi dice. Io, falso ingenuo: “Perché?”. “Perché altrimenti vengo”. Sì, voglio proprio sentirmelo dire. Quindi gioco ancora col suo cazzo e ricomincio a spompinarlo. Lo sento gemere di nuovo e voglio portarlo al limite, che puntualmente, poco dopo, arriva: “Fermati. Vuoi che venga?”. E io, maligno: “No”. “E allora fermati”.
Non ti ho forse detto, poche ore fa, che sono goloso? Di tutto sì, anche del tuo gran cazzo, che adesso pompo con forza. Paj geme, adesso sempre più forte, e poi comincia a contrarre i muscoli. Tolgo la bocca appena in tempo per vedere zampillare dalla sua nerchia, ora grossissima, tutta la sborra che ha. Sta ancora ansimando mentre tocco con la sinistra il liquido bianco che si è depositato sulla sua pancia, e con la destra mi masturbo e poi vengo sopra di lui.
Mi sorride. Rimaniamo distesi vicini, abbracciati, nudi e bagnati. “Non riesco a tenere gli occhi aperti, Milk. Ti fermi a dormire?”. “No”, gli rispondo. Senza aggiungere spiegazioni, mi alzo, mi asciugo, piscio, mi lavo le mani e mi rivesto. “Buon viaggio”, mi dice accompagnandomi alla porta, con l’aria di chi compatisce il ragazzo che rientra alle cinque di mattina con una leggera sbornia e una pesante ubriacatura di sesso. E con anima.

domenica 9 settembre 2012

Una persona - 2ª parte

“Mi piaci, Paj. Sei bellissimo”.
“Ci sono anche cose brutte qui dentro, sai?”, mi dice stringendomi ancor più forte a sé.
“Me lo immagino. Come in tutti, del resto”.
“Già. Avevo bisogno dei tuoi abbracci, Milk. Sì, ne avevo proprio bisogno”.
Ancora lacrime. E sorrisi. E mi sorride. E ci tocchiamo di nuovo, baciandoci con furia. Dobbiamo bruciarla tutta questa passione eppure sembra enorme, incombustibile.
Tenendomi sempre sopra di lui, mette un po’ di saliva sull’indice destro, lo porta al mio culo e comincia un ditalino. Gemo e lui continua, umidificando il dito un’altra volta e poi di nuovo. All’inizio esplora, poi sditalina con sempre maggior forza. 
“Voglio che me lo metti dietro”.
“Dopo t’inculo”, mi risponde Paj. “Non ho fretta. Tu hai fretta?”.
“Nessuna”, gli dico, e mi rimetto a spompinarlo. Questa volta mi tiene la testa ferma con due mani e muove il bacino per scoparmi la bocca. “Oooh... oooh... oooh”, accompagna ogni movimento con un gemito, finché toglie la nerchia e “Cazzo!”, esclama, sentendo forse che si stava avvicinando pericolosamente all’orgasmo. Allora adesso fa stendere me a pancia in su, lui si alza e lo vedo in piedi, alto, forte e con questo grosso palo che oscilla in mezzo alle sue gambe. S’inginocchia sul divano, mi fa portare le gambe, piegate, al petto. Passa una, due, decine di volte la lingua sul mio culo, le mie palle, il mio cazzo. Il buco si dilata e allora lui ci ficca due dita, avanti e indietro, dentro e fuori, poi con le due mani lo tiene aperto, allargato.
“Il tuo culo pulsa”, mi dice serio, “come fosse un cuore”.
“Forse ha paura”.
“E di che?”, mi chiede sinceramente sorpreso.
“Ma delle dimensioni, no?”, gli rispondo io. E scoppia a ridere.
Poi si impugna il cazzo e comincia a batterlo con forza sulle mie palle.
“Paura di questo?”, chiede retoricamente, e poi sfrega la cappella contro il mio buco.
Mi sembra che una parte della cappella riesca a entrare nella mia apertura, ormai dilatata, sicché: “Hai un preservativo?” gli chiedo.
“Sì, tranquillo, stavo solo giocando”.
Quindi si alza, si mette vicino alla mia testa e, prendendola di nuovo fra le sue mani, comincia a scoparmi ancora una volta la bocca, questa volta in maniera più violenta e decisa. I suoi coglioni sbattono ritmicamente contro il mio mento, mentre cerca, invano, di farsi fare una gola profonda. Dopo un po’ fa alzare me, si stende nuovamente sul divano e mi fa sedere sulla sua faccia, dandogli le spalle.
“Allarga il culo”, mi chiede, così porto le mani alle natiche e lui può raggiungere senza problemi con la lingua il buco. Mi sento schiudere dietro, mentre con le sue dita stringe i miei capezzoli. Non resisto: mi chino in avanti, senza spostare il bacino e le gambe, in modo che lui possa continuare il suo lavoro ed io possa rimettermi in bocca il suo uccello. Questa stimolazione reciproca e simultanea è meravigliosa e pare autoalimentarsi: quanto più lui mi fa godere leccandomi fra le cosce, più vigorosamente e profondamente io lo spompino; e più gli piace sentire la mia bocca avvolgergli il cazzo, con più voglia insinua la sua lingua nel mio culo.
È di nuovo lui a bloccarmi, a scansarmi dal suo palo e a farmi stendere di nuovo sopra di lui. Con una mano dirige la mia testa sul suo capezzolo destro. Comincio a leccarlo e a morderlo delicatamente, ma lui mi preme la mia testa contro il suo petto.
“Mordi... mordi... mordi... mordi... mordi...”. Lo ripete infinite volte, sempre con la stessa intonazione, come un ordine dato pacatamente, mentre io uso i miei denti con sempre maggior forza, temendo di fargli male. “Mordi... mordi... oh, sì, così, cazzo... mordi”. Lo stesso trattamento, forse ancor più brutale, lo richiede per l’altro capezzolo. Finché:
“Voglio chiavarti”, mi dice. “Vieni, andiamo in camera”.
Mi stendo sul letto, mentre lui chiude le finestre, spegne le luci e poi entra in camera, accende la luce del comodino e comincia a srotolare un preservativo sul cazzo. L’erezione, prima possente, comincia a svanire per l’evidente difficoltà che ha a indossarlo. “È che mi sono rimasti solo quelli piccoli, merda! Mi stringe troppo”.
“Tranquillo”, gli dico, “con calma”, mentre lubrifico con molto gel il mio buco.
Dopo molto armeggiare riesce finalmente a metterselo, sparge un po’ di gel sul cazzo e con quello si masturba un po’ per ritrovare il vigore perduto. Io mi metto a pecorina e aspetto. Dopo poco tempo lo impugna e sento che punta la cappella contro il mio culo. Non sta centrando il buco, ma preme il cazzo con forza, sicché quando poi lo trova, l’ingresso è immediato e violento. Grido forte.
“Ti sto facendo male?”, mi chiede.
“No”, dico io, mentendo, ma solo un po’. Non voglio che sia costretto a fermarsi e, al tempo stesso, so che quel po’ di dolore che sto provando, presto svanirà e lascerà il posto al piacere che già sta invadendo le mie viscere. 
Cominciano i colpi. Sono molto lenti e profondi, al punto che posso chiaramente sentire i suoi coglioni schiacciarsi contro di me. Paj, questo romanticissimo stallone, mi sta montando. Un paio di volte mi prende per i fianchi e dà dei colpi più violenti e rapidi, poi però torna subito a un ritmo più leggero.
“Devo andare piano, altrimenti vengo”, mi sussurra nell’orecchio.
Io, che a ogni colpo gemo, visto anche il notevole diametro, riesco a dire: “Tranquillo, vai piano, mi piace”.
Dopo qualche minuto, un fremito sembra scuotere Paj: “Sto per venire, Milk”.
“Vieni, Paj”.
“Sto per venire... Sborro!”.
E così, con cinque o sei colpi bene assestati, si scarica dentro di me, mentre io mi svuoto sulle sue lenzuola. Quando lo estrae, osservo il preservativo pieno e gli sorrido.
“Vuoi fermarti a dormire qui?”, mi chiede. Sono le due meno un quarto.
“No, domani ho molto da fare, preferisco svegliarmi e fare colazione direttamente a casa mia”.
“Ci sentiamo, allora”.
“Certo”.
Per strada respiro un’altra aria. Si direbbe che l’estate sia finita. Mi pare che cominci qualcos’altro. Cosa, non so bene.
(2 - Fine - Vai alla prima parte)

venerdì 7 settembre 2012

Una persona - 1ª parte

“Io non funziono così”. La frase, appena apparsa sullo schermo, mi lascia perplesso. La rileggo. Le parole sono proprio quelle. Sono di una chiarezza cristallina. Eppure non riesco a capirle subito. È che nei minuti precedenti abbiamo chattato pesante. È ben vero che abbiamo evitato le solite domande sul ruolo sessuale dell’altro (del resto, che io sia passivo, lo dichiaro apertamente) o su quanto è grande il suo cazzo. Mi sono lasciato guidare piuttosto dai suoi modi gentili, che lasciano intravedere la sua discreta fiducia in sé. Tuttavia, sulle motivazioni contingenti (immediate ed urgenti, mi vien da dire) che ci hanno portati entrambi in questa chat, che hanno indotto lui a contattarmi per primo e me a rispondergli volentieri, non mi sembrava esserci dubbio alcuno. Almeno, fino a poco fa. Le foto che ci siamo scambiati potrebbero testimoniarlo: il suo torso, il suo uccello, il mio culo...
No, ha bisogno di vedermi prima. In un luogo neutro. Bere qualcosa, parlare. Ci penso un attimo e poi accetto. È sgradevole la sensazione di sottostare una volta di più a quella che spesso mi è sembrata solo un’ipocrita manfrina o la replica di un colloquio di lavoro, con il tutto il carico di ansia connesso. Ma gli dico di sì, perché questo ragazzo mi piace da morire e perché emana un’attrazione indefinibile. Sfuggendo al luogo comune che vuole che qui si esca “a prendere una birra” (come dire, in Italia, “bere un bicchiere”), suggerisce di andare a farci un vinello. 
Quando arriva nel locale, quello con molto legno vicino alla piazza, io sono già seduto al bancone con il mio bel calice di rosso. È alto, molto alto. Ha le spalle abbastanza larghe e una maglietta aperta sul davanti, dove noto un bel torso con il pelo accorciato. Un paio di jeans scuri, aderenti su gambe forti. Scarpe da ginnastica. Barba corta, scura. Capelli nerissimi e fitti fitti, corti, a incorniciare un viso un po’ squadrato. Gli occhi sono castani, molto scuri. Il naso grosso, invece di stonare, aggiunge semmai virilità all’aspetto di Paj. Con mio grande stupore, sono tranquillo e a mio agio: per quello che mi sta raccontando sento lo stesso interesse che mostra di provare lui per me. M’incuriosisce, per esempio, questo suo passare agilmente, nel corso della sua vita, da eterosessuale a gay e poi di nuovo a etero per terminare, ora, in uno spiccato (però chissà, magari non definitivo) orientamento omosessuale. Parliamo fittamente e sembra che riusciamo a stabilire una connessione e che, in fondo, questo passaggio per lui obbligato, non spiaccia nemmeno a me.  
Tutte le volte che mi osserva fissamente, abbasso lo sguardo. Ride e mi prende bonariamente in giro. Ci stiamo seducendo con la parola e con lo sguardo. Calice dopo calice, gli sgabelli si avvicinano e cominciamo a toccarci. Ci baciamo, accarezzandoci la nuca e poi abbracciandoci. Riprendiamo a parlare e a bere, ma è sempre più difficile trattenerci e così continuiamo a baciarci, dominati ormai dall’attrazione reciproca. Sentirmi avvolto fra quelle braccia e assaporare il suo odore, mi commuove e mi scuote tutto intero, al punto che ho le lacrime agli occhi: è una specie di gioia incontenibile che deborda. 
Gli altri avventori intorno al bancone lanciano adesso commenti più che benevoli nei nostri confronti. Paj bacia meravigliosamente bene eppure dice a me: “Che labbra delicate hai”. Prende una mia mano e la porta sul rigonfiamento dei pantaloni per farmi capire, senza equivoci, l’effetto che gli sto facendo. Delicatezza e durezza, un contrasto che mi ha sempre eccitato.
“Il fatto di essere qui, in mezzo ad altra gente, mi inibisce un po’”, mi dice. 
E meno male, penso io. “Allora che ne pensi di cercare per noi un po’ d’intimità?”.
“Mi sembra un’ottima idea. Un’ottima idea, sì”.
I pochi passi che separano quel locale da casa sua, una decina di minuti al massimo, sono sufficienti per far mutare repentinamente il mio stato d’animo. Forse mi distraggo perché Paj si ferma a parlare un minuto con due amici suoi che passavano casualmente di lì. O forse, adesso che la meta è chiara e l’obiettivo condiviso, tornano inibizioni e paure che nel bar ero riuscito a dimenticare. Il fatto è che quando salgo le scale del condominio dove abita, due o tre scalini davanti a lui, mi guarda voglioso il culo ed io sono un po’ nervoso.
“Mettiti comodo”, mi dice mentre, seduto con me sul divano, serve due calici di rosso. Mi abbraccia e di nuovo i suoi baci, lunghi, profondi, appassionati, mi rapiscono. I miei timori svaniscono improvvisamente. E allora è quasi una lotta di mani per esplorare ogni centimetro del nostro corpo, per gettare via in fretta, quasi scottassero, le poche cose che abbiamo addosso. Ed è proprio in quel momento che - sorpresa! - dai suoi slip bianchi sbuca l’uccello. Glieli levo e ci resto quasi male: ha uno dei cazzi più grandi che abbia mai “toccato con mano”. Ventidue centimetri. Così, a occhio. Giuro. Quasi mi prende un colpo. Quanto alle dimensioni dei coglioni, di questo sì, sono sicuro: sono talmente enormi che di così grossi non ne avevo visti proprio mai. Uno stallone? Un toro? Entrambi? Qualcosa non torna: le foto. Dalle foto che mi ha mandato sembrava un bel cazzo, sì, ma di dimensioni medie. Solo più tardi rifletterò sulla frase che le accompagnava, e che io avevo inconsapevolmente ignorato: “Si sta risvegliando”. Ovvero: attenzione, bimbo, è ancora molle.
Adesso è un’altra cosa. Ora che può dispiegare tutta la sua forza e la sua durezza, e che quel corpo grande e armonioso mi si offre disteso su quel divano, chinarmi e mettere la testa tra le sue gambe è un attimo. Mi sento incredibilmente impacciato cercando di maneggiare il tutto. Me lo metto in bocca e vorrei riuscire a cacciarmelo dentro completamente, ma è davvero impossibile. “Oooh... oooh... oooh”: il lavoretto gli piace e di tanto in tanto il mio sguardo incrocia i suoi occhi scuri che osservano attentamente il suo cazzo sparire nella mia bocca. Ma appena lo faccio uscire per prendere un po’ di fiato e masturbarlo un po’, mi prende e mi fa stendere sopra di lui. È forse più affamato di baci lui di me, che pure non ne ricevevo di così sinceri da un bel po’.
(1 - Continua)

venerdì 31 agosto 2012

Prima che se ne vada

Che bel sorriso e come risalta sulla sua pelle nera. Gli ho aperto in slip e adesso, mentre mi bacia, una mano palpa il mio culo e un dito s’intrufola già a cercare il mio buco. J., il medico, è sempre stato così: non ha mai sfiorato nemmeno lontanamente il mio cazzo (probabilmente non l’ha mai nemmeno osservato, se non di sfuggita) e le uniche parti del mio corpo verso le quali mostra interesse sono la bocca e, soprattutto, il culo. “Voglio il tuo culo”, mi ha scritto appena rientrato dalle vacanze con i suoi due pargoli, “è perfetto per scoparlo. Sei il miglior passivo che mi fotto”. Tanta lusinga andava premiata, ed eccomi qui, disponibile come sempre. 
“Vado in bagno a pisciare. Mi dai un po’ d’acqua?”, mi chiede e intanto se ne va. Quando torna, ignora il bicchiere che ho posato sul tavolo e, con un altro sorriso, in poche mosse si toglie scarpe da ginnastica, calzini, maglietta e pantaloni corti. Anch’io mi spoglio e resto nudo. Guardo il suo uccello, non ancora completamente eretto, e lo trovo molto bello: una pelle finissima ricopre completamente la cappella mentre questa s’ingrossa piano piano. Mi avvicino, lascio che lui mi tocchi di nuovo il culo, mentre io gli accarezzo il cazzo che reagisce elevandosi vigorosamente a scatti. Poi tiro la pelle verso il ventre e scopro la cappella: come ricordavo, è più grossa rispetto al diametro dell’asta. M’inginocchio, apro la bocca e incomincio a succhiarglielo. Non uso la mano, lo sbocchino fin da subito abbastanza energicamente e cerco di farlo entrare più che posso. J. accenna a una timida scopata di bocca mettendomi le due mani sulla testa. 
Il suo gesto provoca la mia eccitazione tanto che mi metto a quattro zampe sul pavimento: se la rigidità del cazzo di J. parla già sufficientemente chiaro in questo senso, il mio corpo, invece, per mostrare al maschio di turno di essere prossimo al momento in cui lo si potrà montare, come sempre invia altri segnali. La postura è uno di quelli, così come la maniera di inarcare la schiena e di sporgere il culo, via via più evidenti man mano che il bocchino prosegue. 
Il desiderio (la necessità animale) non è ignorato da J. che infatti s’insaliva un dito, si china verso di me e me lo infila in culo. Ripete l’operazione due volte e mi masturba nel buco mentre io continuo a spompinarlo. Il mio cuore accelera i battiti ed io aumento il ritmo del bocchino e gemo, perdo definitivamente il controllo e il buco si dilata. “Oh, sì, Milk”, prorompe J., “ti voglio chiavare!”. Proprio per questo ci avviciniamo al divano, sul quale avevo già in precedenza appoggiato lo stretto necessario per passare dalle parole ai fatti. Lubrifico allora ulteriormente, con una goccia di gel, il mio buco e ne metto un po’ sul cazzo di J., adesso ricoperto da un preservativo. 
Braccia incrociate sullo schienale, ginocchia appoggiate al divano, buco offerto e preparato: J. entra con un movimento rapido, cacciandolo dentro fino in fondo. Delicato al principio? Neanche per sogno: i suoi movimenti sono rapidi e i suoi colpi secchi, costanti. Sento confusamente, perso tra i miei gemiti, il suo respiro pesante nelle mie orecchie, mentre appoggia le mani ai lati dei miei gomiti sullo schienale e riprende la sua corsa.
Dopo un po’ mi allungo sul divano appoggiando la testa sul cuscino, tenendo la schiena estremamente bassa e il culo in alto. Lui è di nuovo dietro di me e sbatte il suo corpo contro il mio con tutta la forza che ha. E mi porta lontano, in posti dove il mio culo è solo l’intermediario fra il suo cazzo e il mio cervello, fra il suo istinto e il mio. Sento uno stimolo piacevolissimo, acuto, in fondo al mio culo. Sento sbattere contro di me i suoi coglioni, a ogni colpo. 
Proprio allora mi chiede: “Lo senti il mio cazzo?”. Poco dopo: “Ti piace farti scopare, vero?”. Le mie risposte, tutte affermative, sembrano giungere da Marte, tanto il piacere che provo si è fatto intenso. Mi prende per una spalla per farmi alzare il busto e continua i movimenti di bacino, di tanto in tanto meno intensi. Dopo qualche minuto: “Mi piace passare qua e chiavarti così”, mi dice, e poi mi prende e, senza far uscire il cazzo dal mio culo, mi mette in piedi contro la parete, mi fa chiudere le gambe e ricomincia a fottermi. Mi sussurra nell’orecchio: “Così, sì, così... mi piace, Milk, mi piace”. Probabilmente perché la penetrazione si è fatta ora meno profonda e a ogni movimento J. estrae quasi completamente il cazzo, compresa una parte della cappella, la sensazione piacevole si è spostata dall’interno del culo al bordo del buco.
Ma all’improvviso, con colpi più profondi e rapidi, inizia a cavalcarmi in maniera violenta e ad ansimare forte: “Sto per venire, sto per venire, Milk”. “Oh, sì, vieni, dai”, gli dico io. E lo sento scaricare tutto dentro di me, mentre emette dei suoni gutturali e io lascio andare dolce la mia mano sul mio cazzo. Schizzo sulla parete.
Dopo la doccia, m’informa che presto dovrà andarsene per qualche tempo all’estero per un importante corso di aggiornamento. “Prima di partire, vengo a lasciarti un bel ricordo”, mi dice, già quasi sull’uscio. E guai a lui se non  lo fa.

mercoledì 29 agosto 2012

I piedi in testa

Il segno più evidente che qualcosa tra noi sta funzionando a un livello davvero profondo,  sarà il perdurare della dilatazione della mia parte più intima anche molti minuti dopo aver terminato la monta selvaggia che mi stai infliggendo, quando, per strada, proverò invano a camminare normalmente, nonostante gli sforzi disperati per contrarre il buco e farlo richiudere. Nei miei slip colerà e formerà una macchia un piccolo rivolo di umori intimi, misto di gel, di saliva e di una sostanza trasparente e vischiosa, sorta di lubrificante naturale prodotto dal culo in occasione di forti sollecitazioni, che non riuscirò a trattenere. Sotto il cielo nero della notte più fonda, percorrendo i trecento metri che dividono le nostre rispettive case, mi sentirò aperto, usato e scaricato, soddisfatto. E sporco. Irredimibilmente infangato e contento, come chi non vuol esser redento. E quasi che i pensieri, in una notte tanto greve, possano materializzarsi e farsi maschio, passerò vicino a un ragazzo straniero, probabilmente arabo, che sta pisciando sul marciapiede, senza curarsi del fatto che io lo veda, girato verso di me. Guardandomi, mi rivolgerà un richiamo, una specie di schiocco della lingua, al quale io risponderò osservando sfacciatamente l’uccello che tiene in mano. Allora lui dirigerà il getto, con uno scatto rapido, verso di me, bagnandomi di piscio il piede destro. Tirerò dritto senza dir niente, mentre lo ascolterò gridare non so quali improperi nella sua lingua. Non proverò quasi nessuno stupore: penserò che, in fin dei conti, marcando in quel modo il suo territorio, non ha fatto altro che includermi fra i marginali che abitano i bassifondi di questa città. Almeno per certi aspetti, penserò, ha perfettamente ragione.
Allora cosa sta funzionando tra noi? Non la rapidità con la quale mi hai convocato in casa dell’amica tua (lei assente), all’una di notte. Non il fatto che mi hai aperto la porta completamente nudo e col cazzo in tiro (“Ma... sei già eccitato!”, “Te l’avevo detto che avevo molta voglia...”). Non è la tua pelle olivastra, perfettamente liscia e tesa, non i tuoi occhi neri o il tuo corpo, così armonioso. Non le stupide corna di cervo appese alla parete che, nella penombra dell’unica fonte di luce del salone, cioè la tv, aggiungono solo altra inquietudine a quella che già provo. Non sono le tue labbra, che cerco di baciare inutilmente, e nemmeno i tuoi capezzoli, che non mi lasci stuzzicare perché “sai, i piercing che ho sono recenti”. Cominciamo così così, con te che ti stendi sul divano, le spalle appoggiate allo schienale e le mani incrociate dietro la nuca, gli occhi chiusi. Penso che hai già scritto il copione ma non ti degni di comunicarlo. Ma, come da copione, impugno il tuo cazzo con una mano e comincio a masturbarti. In un attimo ti viene di nuovo duro. “Ti piace il mio cazzo?” mi chiedi, serio. “Molto”, ti rispondo. Poi mi chino e comincio a succhiartelo. È lungo e grosso. Quando inizio a spompinare con più forza cercando di farlo entrare in bocca il più possibile, mentre palpo i tuoi coglioni, sento che gemi. 
“Hai portato il preservativo?”, mi chiedi. 
“Sì”, ti rispondo io, e subito ricomincio a succhiarti la minchia, ancora vestito di maglietta e pantaloni corti. “Ma come voleva fare sesso sicuro questo qui”, penso io con la bocca piena e guardandoti in faccia, “senza preservativo?”.
“Perché, tu non ne hai?”, ti dico io tenendo il tuo cazzo con la mano destra vicino alla bocca, quasi fosse un microfono (magari il messaggio ti giunge più chiaro). Sì, lo so, la mia indole polemica a volte sorge nei momenti meno indicati. Ma la risposta che mi tocca ascoltare rischia di mandare a monte quella che si rivelerà essere la miglior scopata della settimana... beh, del mese, va’: “L’ho cercato prima che arrivassi, ma col buio non l’ho trovato”. Arresto di colpo il movimento della mia testa, le labbra chiuse attorno alla tua asta, più o meno a metà. Ti osservo. “Glielo dico che ogni tanto farebbe meglio a pagare la bolletta della luce?”, penso. Tuttavia, un certo senso pragmatico torna a impossessarsi miracolosamente di me e mi consiglia di proseguire la suzione; e così faccio.
Piccola pausa per togliermi di dosso i vestiti, perché “aiutati che Dio t’aiuta”, come si suol dire. Sta andando proprio male con te, Al., perché qualche piccola attenzione la vorrei pure io. Ma non mi perdo d’animo, mi corico tra le tue gambe e mi ricaccio in bocca il tuo cazzo, per succhiarlo con rinnovato vigore. Finché cambi di colpo atteggiamento, esci dal tuo ruolo di “attivo passivo”, e diventi un altro. La svolta. Ti alzi e più che una domanda è un ordine: “Dammi il preservativo”. Mentre lo indossi, io spargo come posso un po’ di lubrificante sul mio buco, che sento stretto, troppo stretto. “Metti del gel qui”, altro ordine che mi dai, impugnando e agitando il tuo cazzo inguainato. Eseguo, passando e ripassando la mia mano destra sulla tua nerchia durissima. Sei molto eccitato e pronto a fare ciò che il corpo ti sta imponendo di fare. In me, invece, sensazioni contrastanti: una certa eccitazione per la tua intraprendenza e la libidine che trasudi, ma inquietudine per le dimensioni dell’attrezzo che vuoi far entrare dentro di me. 
Mi metti una mano sulla schiena e mi spingi forte verso il basso, perché assuma la posizione a quattro zampe. Mi afferri per i fianchi per aggiustare l’altezza del mio culo, mentre io lo sporgo e sento salire rapidissimamente l’eccitazione. Poi appoggi la punta del tuo cazzo contro il mio buco, spingi un po’ e ci fai entrare la cappella. Ed ecco quello che funziona! È l’unione del tuo bel bastone con il mio culo che tu, ora, sai rendere accogliente: entri pianissimo, millimetro dopo millimetro, facendo crescere lentamente la mia voglia e, proporzionalmente, il diametro dell’apertura. Solo due volte ti sento dare dei colpetti un po’ più forti, due o tre in rapida successione, come se tentassi di forzare un po’. Il tratto finale, quando ormai è quasi tutto dentro, lo percorri scivolandomi dentro come una lama calda può fendere il burro. In quel preciso momento io non sono niente di più che un animale in calore giustamente sottoposto alla monta di un altro animale infoiato come me. Anche per questo gemo forte.
“Zitto, zitto!”, mi intimi. È vero, la finestra che dà sulla strada è aperta, ma certe espressioni non riesco proprio a controllarle. Mi stai chiavando con una forza brutale, dando colpi su colpi. Sembra che tutta l’energia del tuo corpo passi dai fasci dei tuoi muscoli al tuo cazzo e poi, attraverso il culo che stai trapanando, a tutto il mio corpo. A volte rallenti un po’, poi ti diverti ad accelerare di nuovo e poi ancora vuoi sottomettermi a tutte le tue voglie. Me lo sbatti dentro con tale violenza e cercando di fare in modo che entri talmente tanto, che tutto non è ancora abbastanza; mi monti, sempre da dietro, stando col busto sopra di me, appoggiandoti con i piedi e tenendo le ginocchia flesse attorno ai miei fianchi, con il tuo cazzo che entra ed esce come uno stantuffo, quasi perpendicolare al mio buco; mi tiri per i capelli mentre continui a incularmi forte, oppure mi tieni per le spalle, per ridurre l’ondeggiamento del mio corpo; appoggi il ginocchio destro accanto al mio e, sempre dandomi dei colpi, allunghi la gamba sinistra fino a che il tuo piede non schiaccia la mia testa contro il divano su cui mi stai prendendo. Io grido sempre più forte perché godo come raramente mi capita e tu continui a dirmi: “Sssh, ssh!”. A tratti mi metti anche una mano sulla bocca perché sai che mi stai penetrando violentemente e che non posso far altro che gemere. Durante un tempo che a me pare infinito, m’inculi premendomi la faccia contro il cuscino del divano, in modo che io possa gridare senza essere udito. Poi mi parli da dietro, senza interrompere il tuo va e vieni, ma riducendo moltissimo la forza e la velocità, e io giro il capo e ti osservo dire: “Volevi cazzo? Eh? Volevi cazzo, sì o no?”. Sibilo un “Sì”, mescolato a un gemito. “Allora adesso lo prendi e stai zitto!”. E ricomincia la monta.
Ecco quello che sta funzionando. Il tuo fiuto animale ha capito esattamente ciò di cui avevo bisogno: e tu me lo dai. Di tanto in tanto, per sei o sette volte, estrai completamente la nerchia ed osservi il mio buco, fai colare dalla tua bocca un po’ di saliva, e riprendi a martellare. Ad un certo punto, mi fai mettere in piedi, abbracciato a una trave verticale che spunta dal pavimento e, facendomi divaricare le gambe e appoggiarne una sul divano, ti garantisci, furbetto, la migliore apertura del mio culo. “Così, così, troia!”, mi sussurri mentre me lo ficchi dentro fino in fondo tanto da farmi quasi male. Poi: “Di nuovo a pecorina!”, ordini. Ti metti in piedi dietro di me, con uno strattone mi tiri per i fianchi per avvicinare di più il mio culo a te, e inizi a incularmi a un ritmo via via più sostenuto. “Adesso ti sborro”, mi avverti infine. Con i miei gemiti ti incoraggio a farlo. Ti sento ansimare e finire dentro di me. Ancora in preda al piacere dell’orgasmo, ti pieghi su di me. Con una mano, raggiungo anch’io rapidamente l’orgasmo. Poi, prima che tu sfili definitivamente il tuo cazzo, allungo una mano dietro per toccarti i coglioni appena svuotati.
“Adesso posso andare a dormire tranquillo”, mi dici qualche minuto dopo, osservando l’orologio: sono le due e mezza. Con una certa sorpresa da parte mia, sei tu a lanciare l’esca: “La prossima volta”, mi dici, “dovrà essere a casa tua, perché io in realtà sono ospite qui solo per qualche giorno ancora e sto cercando un altro appartamento in affitto. È un casino”. “Non ti preoccupare, Al.”, ti dico amichevolmente, “a rilassarti ci penso io”.

sabato 25 agosto 2012

Obiettivamente

Nome: I.
Genere: maschio.
Età: 32 anni.
Etnia: bianco.
Statura: 172 cm.
Corporatura: magro.
Capelli: castani scuri, corti.
Villosità: scarsa.
Lunghezza del pene: 18 cm.
Grossezza del pene: grosso.
Orientamento: bisessuale.
Ruolo sessuale: attivo.
Relazione affettiva: solo.

Primo contatto: 28 luglio 2012, ore 16,56. 
Milk: Ciao. Che bel cazzo!
I. (16,58): Perfetto per il tuo culo.
Milk (18,19): Se vuoi, puoi provarlo. Hai una foto del viso?
I. (20,10): Eccola, una tua?
Milk (20,12): Eccola.
I. (20,14): Se ti va possiamo vederci...
Milk (20,17): Ok. Dimmi quando puoi e cosa ti piace fare.
I. (20,27): Mi piace molto baciare e mi fa impazzire quando mi fanno un bel bocchino e sono attivo. A te cosa piace? Dovrei fare la doccia e cambiarmi, un quarto d’ora circa e poi dipende da dove abiti, io vivo nel quartiere L. e mi sposto.
Milk (20,33): Anche a me piace baciare, accarezzare, leccare i capezzoli e i coglioni, succhiare un bel cazzo. E mi piace molto farmelo mettere dietro. Io vivo vicino alla stazione della metro Tale.
I. (20,37): Beh, siamo vicini. Faccio la doccia e tra 35-40 minuti arrivo. Dammi l’indirizzo e ti avviso quando esco.
Milk (20,43): Ok. Vivo in... Prima di uscire, dammi il tuo numero di telefono.
I. (20,44): nnnnnnnnn. Vado a farmi la doccia, quando sono pronto ti avviso qui.
Milk (20,47): Ok.
I. (21,16): Pronto per uscire, tra 20 minuti arrivo. A dopo.
Milk (21,17): A dopo.

Incontro
Il soggetto attivo (d’ora in poi “l’attivo”) si presenta, dal punto di vista fisico, come da descrizione schematica riportata più sopra. Il suo comportamento, dopo aver varcato la soglia di casa del soggetto passivo (d’ora in poi “il passivo”), è deciso, ma questo appare più un’abitudine o un modo per vincere un’intrinseca timidezza, che una reale caratteristica del suo carattere. Rifiuta l’offerta del passivo di bere qualcosa e invece lo avvicina rapidamente e lo bacia. Si tratta di baci profondi, con reciproco sfregamento della lingua. L’eccitazione di entrambi i soggetti si fa via via più evidente osservando l’accelerazione della loro respirazione, dapprima lieve e poi sempre più marcata, e le azioni compiute dalle loro mani: quelle dell’attivo palpano e cercano ripetutamente di attrarre a sé i glutei del passivo, mentre quelle del passivo sfiorano e stringono i capezzoli dell’attivo, sotto la maglietta di quest’ultimo.
Il passaggio alla fase successiva è marcato da un’azione subitanea del passivo, che si toglie la maglietta. Il gesto viene interpretato dall’attivo come l’occasione per togliersi di dosso tutti i panni e ciò finiscono per fare entrambi i soggetti che restano, al termine dell’azione, completamente nudi. Si nota nell’attivo un vistoso fenomeno erettivo, che a questo stadio potremmo definire quasi completo, mentre il pene del passivo si presenta flaccido, seppur di dimensioni aumentate rispetto alla posizione c.d. “a riposo”. In questa fase, i due soggetti si trovano di nuovo in piedi, nuovamente stimolano le mucose orali secondo il già visto procedimento del bacio in bocca, ma mentre ora il passivo tocca delicatamente il membro virile dell’attivo, con l’intento palese di saggiarne la consistenza, la parte opposta ritorna alla palpazione dei glutei del passivo, introducendo tuttavia un’importante novità: la ricerca, effettuata dal dito indice della mano destra, dell’orifizio anale del soggetto in questione. In questa fase, dunque, i rispettivi ruoli sono richiamati direttamente dai gesti compiuti, i quali rinviano alle funzioni delle rispettive parti del corpo toccate dai due soggetti: penetrativa quella della verga dell’attivo, ricettiva quella dell’ano del passivo.
La fase seguente, a differenza della precedente, principia per iniziativa dell’attivo, il quale pone una mano sul capo del passivo, esercitando una lieve pressione verso il basso, assumendo così un comportamento molto frequente fra i maschi attivi quando intendono segnalare al partner il desiderio che si effettui su di loro una fellatio o rapporto orale (volg. “pompino” o anche “bocchino”). La risposta del passivo, registrata spesso anch’essa, consiste in una certa resistenza, la quale è tuttavia motivata dal desiderio di aumentare l’eccitazione dell’attivo, prolungando l’attesa, e non dal rifiuto della pratica in sé. Infatti, dopo un’altra pressione, questa volta di più alta magnitudo, il passivo cede e s’inginocchia davanti all’attivo. Dopo aver aperto il cavo orale, vi fa entrare il membro dell’attivo, aiutandosi nell’operazione con la propria mano destra. L’eccitazione del passivo cresce in una maniera che può essere misurata dall’erezione del proprio membro (ormai completa) e dai gemiti che, pur con la bocca occupata dal pene dell’attivo, riesce a emettere. L’attivo si limita ad osservare attentamente l’azione in corso e il suo membro presenta una turgidità costante.
Dopo svariati minuti, con un gesto lento ma deciso, l’attivo toglie improvvisamente la mano destra del passivo dal proprio membro, facendo così scivolare l’incontro nella sua quarta fase. L’attivo desidera evidentemente che il passivo utilizzi unicamente la bocca e infatti ora quest’ultimo, sempre inginocchiato, posa entrambe le mani sui glutei dell’attivo e pratica una fellatio dai movimenti più rapidi rispetto alla fase precedente. Il piacere provato dall’attivo appare in costante aumento ed è rilevabile dal suo ansimare e dal fatto che, chiudendo gli occhi, alza il capo. Il successivo comportamento dell’attivo, che a nostro avviso non apre una fase nuova ma costituisce semplicemente uno sviluppo di quella in corso, consiste nell’apposizione delle proprie mani sul capo del passivo e nell’attrarre quest’ultimo a sé, per verificarne l’effettiva capienza del cavo orale (c.d. “gola profonda”). Si rileva così l’introduzione nella bocca del passivo di 16-17 centimetri dei 18 di cui è dotato il pene dell’attivo, sicché 1-2 centimetri della base del membro rimangono all’esterno, mentre all’interno il glande dell’attivo giunge a toccare la gola (il passivo infatti trattiene il respiro e forza la dilatazione della gola, per evitare il tipico stimolo che provocherebbe il vomito). Importante notare che tutta l’operazione è grandemente agevolata dalla particolare forma del pene dell’attivo che, in posizione eretta, si presenta perfettamente perpendicolare al ventre di quest’ultimo, nel suo tratto iniziale, e poi, nella parte finale e fino al glande, piuttosto grosso ma di forma allungata, leggermente curvato verso il basso.
Per impulso dell’attivo si apre la quinta fase, caratterizzata da una violenta irrumatio (“coito orale” o, volg. “scopare la bocca”): il soggetto, senza togliere le mani dal capo del passivo, inizia dei movimenti penetrativi ad ampia oscillazione, durante lo svolgimento dei quali, cioè, il pene viene estratto quasi completamente dal cavo orale del passivo per poi essere nuovamente e subitamente infilato più a fondo possibile, sfruttando interamente, per quanto osservato, la capienza del passivo. La durata di questa fase è di cinque minuti, sebbene con numerosissime pause, per permettere al passivo di prendere fiato. Lo sforzo di quest’ultimo soggetto è reso evidente dai gemiti che emette, dal fatto che chiude gli occhi con forza e dall’abbondante perdita di saliva. Sforzo che, va notato, non è disgiunto da un certo piacere o, in senso più lato, da eccitazione, rilevabile da una modesta, seppur significativa, dilatazione dell’orifizio anale.
Nessun controllo viene esercitato dal passivo ormai da molto tempo. Come si è visto, infatti, l’unica iniziativa presa autonomamente dal passivo, senza sollecitazione dell’attivo, risale alla prima fase. Non fa eccezione nemmeno la conclusione dell’incontro tra i soggetti in questione (sesta e ultima fase). L’attivo, ansimando in uno stato evidente di sovreccitazione, chiede al passivo un preservativo: è la dichiarazione, implicita però inequivocabile, della propria volontà di penetrare il passivo. Qual è lo stato dei due corpi in questo momento, immediatamente precedente al coito vero e proprio? L’attivo presenta ormai dalla terza fase un’erezione completa, possente e perfettamente costante, che non scema minimamente nemmeno durante la posa del preservativo: la penetrazione è non solo possibile, ma anche fortemente desiderata dal soggetto. Diverso è il caso del passivo, che ha scelto (unico margine d’arbitrio, si direbbe) di farsi penetrare in una posizione che più di alcune altre ne indica la sottomissione: le ginocchia interamente appoggiate al supporto, il busto reclinato in avanti, le braccia tese e le mani anch’esse appoggiate al supporto (c.d. “a quattro zampe”, volg. “alla pecorina”, “a pecora”). Si nota un rapido ed accentuato decadimento dell’erezione del passivo, per l’imminente e atteso passaggio della stimolazione alla regione anale. L’orifizio anale, tuttavia, presenta una dilatazione assai modesta e l’apposizione di gel lubrificante nello stesso avviene, da parte del passivo, con gran rapidità. L’attivo, vinto dall’istinto, postosi in piedi dietro al passivo, appoggia la punta del membro sull’orifizio del passivo e lo spinge verso l’interno con forza eccessiva, tanto da provocare l’emissione di un grido di dolore da parte del passivo. L’estrazione è immediata e il passivo si muove. L’attivo cerca di afferrarlo per i fianchi e di rimetterlo in posizione per tentare di nuovo l’introduzione del pene nell’ano, ma il passivo sparge una dose abbondante di lubrificante sul pene dell’attivo.
Ripresa la posizione iniziale, l’attivo riesce finalmente a penetrare il passivo ed inizia così la monta. Nonostante la corporatura abbastanza esile dell’attivo, le spinte coitali sono, fin dai primi momenti, piuttosto vigorose. Aumentano di profondità, intensità e rapidità, quando l’attivo fa avanzare il passivo in modo da poter egli passare da una postura eretta a una posizione in cui si trova inginocchiato dietro il soggetto ricettivo. Il piacere dell’attivo, che nel frattempo ha messo le mani sui fianchi del passivo ai fini di ridurre l’instabilità del corpo di quest’ultimo dovuta alla forza dei colpi che riceve, è rilevabile dagli ansimi sempre più violenti che emette. Similmente, il godimento della parte ricettiva è sottolineato dai suoi gemiti, ormai forti ed incontrollabili, ma anche dalla notevole dilatazione anale e dalla ripresa, dapprima timida e poi sempre più evidente, del fenomeno erettivo.
Sostenendo di essere ormai prossimo all’acme, la parte insertiva fa spostare il passivo: i due soggetti si trovano ora in piedi uno dietro l’altro. La parte ricettiva ha il busto leggermente piegato in avanti e sporge i glutei, assumendo una postura tipica di maschi e femmine passivi. L’attivo, che gli si pone dietro, la penetra nuovamente. Il movimento oscillatorio della parte insertiva presenta ora un’ampiezza decisamente ridotta rispetto a prima, cioè il pene viene estratto molto meno dall’ano, pur rimanendo la penetrazione estremamente vigorosa. “Vengo!” è l’esclamazione usata dall’attivo per segnalare al passivo l’inizio del proprio orgasmo, mentre quest’ultimo risponde semplicemente: “Oh, sì”. Entrambi i soggetti sperimentano l’orgasmo quasi contemporaneamente, gemendo (il passivo con maggior forza, l’attivo più discretamente) ed eiaculando (volg. “sborrando”).

Secondo contatto: 23 agosto 2012, ore 15,16
I.: Come va? Se uno di questi giorni ti va di vederci, dimmelo... Questo fine settimana lavoro, però il prossimo sarò in vacanza.

lunedì 20 agosto 2012

Un tipo deciso

Il colpo è fortissimo e scuote l’intero mio corpo, facendolo oscillare. Prima la spinta in avanti, violenta; immediatamente dopo, il rinculo. Quando mi sono messo a pecorina, offrendogli il mio culo perché lo prendesse e lo facesse suo, lui si è inginocchiato dietro di me, ha afferrato con forza i miei fianchi e li ha stretti nelle sue mani grandi. È in quella posizione che, con estrema rapidità, il suo cazzo, la cui cappella aveva appoggiato contro il buco, è affondato completamente nelle mie viscere, lasciando fuori solo i coglioni. Un colpo di reni rapido, secco, calcolato per fare almeno un po’ male. Un secondo, forse meno; quanto basta per farmi gridare forte e per udire il suo grugnito.
Malgrado durante i preliminari abbia speso molto tempo intorno alla mia apertura, leccandola lentamente, con notevole pazienza, spingendoci dentro un dito e poi due, e abbia provocato quindi una certa dilatazione, l’ingresso brutale del suo cazzo mi fa male. Brucia. La sensazione è quella di un grosso palo rovente improvvisamente piantato dietro. Tuttavia, è esattamente quello che voglio, perché era quello che desiderava lui. Mi aveva avvertito, descrivendo il suo modo di sottomettere i ragazzi che fotte: “Mi piace rompere culi già rotti”. Il suo linguaggio crudo e diretto, che ben si addice al suo aspetto massiccio e virile fino all’eccesso, mi aveva dato il capogiro. E mi aveva convinto a incontrarlo. “Con me dovrai essere molto resistente”.
La meticolosità con la quale ha compiuto ogni gesto, da quando è entrato in casa e fino a poco fa, mi ha fatto fremere d’impazienza. I suoi baci sono prolungati e iniziano dolcemente ma poi si fanno più violenti, quasi che con la sua bocca voglia mangiarsi la mia. Mentre mi morde leggermente le labbra, strizza i miei capezzoli e li tira, per sentire i miei gemiti tra i suoi denti. E quando dedica le sue più sincere attenzioni alla parte che di me gli interessa di più, per prepararla ad accoglierlo degnamente, io sono piegato a succhiargli il cazzo, che non è più lungo della media, ma è bello grosso e nella mia bocca si sistema perfettamente, riempiendola. Quasi a voler rispecchiare fedelmente tutti gli stereotipi sulla virilità, E. ha anche un paio di coglioni grossissimi, che fatico a stringere con una mano sola mentre con la bocca ben stretta intorno al suo gingillo vado su e giù, sperando gli piaccia. Si lascia fare, però non reagisce, indaffarato com’è con bocca lingua e mani attorno al mio culo, concentrato sulla reazione del buco al suo passaggio.
Si apre, ed E. lo nota, sicché inizia a farmi ditalini sempre più nervosi con un dito e poi con due e chissà se è arrivato a metterne tre. “Mmh, mmh, mmh!”, mugolo io, che già non reggo più tanta eccitazione e sbavo sulle sue palle. Resta perfettamente in silenzio. Con la coda dell’occhio vedo che, senza smettere di tormentarmi il buco, osserva come lo spompino, con un sorriso stampato sulla faccia e uno sguardo assai eloquente. 
“Adesso ti metti a pecora”, sbotta a un certo punto. La ricreazione è finita. Mentre io eseguo l’ordine, E. si alza per frugare nella sua borsa a tracolla. Prende un preservativo che si infila rapidamente e poi sento che, con un po’ di lubrificante, umidifica il mio buco. Così adesso grido il mio dolore, il corpo si tende all’improvviso, nel culo una fitta che non sentivo da secoli. Sta già scivolando verso l’esterno, già intuisco la sensazione di sollievo che proverò nel momento in cui tutta la sua nerchia sarà fuori, ma all’improvviso E. arresta il movimento e imprime un altro colpo di reni, rapido e violento, verso l’interno del mio culo, dove affonda di nuovo. Grido ancora e questo, con tutta probabilità, lo eccita ancora di più. Ripete il movimento ancora dieci, forse venti volte, con precisione millimetrica. Pam, estrazione, pam, estrazione, pam, estrazione,... Finché il dolore sparisce, sostituito da un piacere enorme che pulsa nella mia testa e non mi molla un secondo. 
“Che bel culo”, si lascia sfuggire, preludio di una variazione di ritmo: adesso è un va e vieni continuo, lineare, oscillatorio, rapido e profondo. Pam-pam-pam-pam-pam-pam-pam... Il mio busto si piega fino ad appiattirsi contro i cuscini del divano. Sporgo il culo e ad ogni colpo sento i coglioni di E. sbattere contro di me. Sto godendo, e glielo dico, ansimando lo supplico di continuare a chiavarmi come sta facendo, che mi piace.
Ma a un certo punto lo sento ansimare e poi gridare. Tira fuori il cazzo improvvisamente e forse vorrebbe schizzarmi addosso, ma faccio giusto in tempo a girarmi per vedere il preservativo riempirsi di sborra.
“Cazzo, sono venuto!”, mi dice con aria dispiaciuta.
“Eravamo qui per questo, no?”, ammicco io.
“Dài, rimettiti a pecorina e menati il cazzo”.
“Perché a pecorina?”, mi chiedo fra me e me. Ma perché così E. può masturbarmi a modo suo, infilando le sue dita dentro il mio culo dilatato. E non so quante sono, solo capisco che sono tante. E vengo.

mercoledì 11 luglio 2012

Amo (amen)

Amo svegliarmi alle sette e mezza di mattina dopo aver dormito a malapena due ore. Amo ascoltare i cinguettii dei passeri che a quest’ora volano ancora indisturbati sopra vie deserte. Amo l’aria fresca del mattino non ancora iniziato. Amo questa mia bocca secca, impastata di tabacco e montagne di birra. Amo la pelle bruciante che circonda i miei occhi che hanno pianto. Amo stare così male perché solo vomitando l’anima è possibile che tra un po’ io stia meglio. Per quanto possa sembrarti incredibile, amo e dunque vivo.
Invece tu, nottetempo, come un ladro ti sei infilato nelle mie viscere e hai calpestato senza nessuna pietà (non è termine del tuo vocabolario) le poche cose belle che ho. Portatore di morte, anima imputridita che sei, al filo che disperatamente (caparbiamente) cercavo di tessere, toglievi fibra. Svilivi. Lasciandomi senza fiato, senza parole, hai liquidato la questione in pochi minuti. Un taglio chirurgico, complimenti. Ed io ti ho indicato la porta.
Sei uscito dalla mia vita, finalmente. Non mi vergogno di averci provato perché ciò che serbavo era bello ed era davvero il meglio di me. Ti ringrazio infinitamente, con tutto il cuore, per la tua meschinità e il tuo cinismo, così spudorati da sembrare grotteschi, perché confermano le infauste previsioni e mi sussurrano che buttarti fuori di casa è stato l’episodio più glorioso di questi sette mesi.
Rancore, immaginerai forse tu. Sbaglieresti, e sarebbe solo l’ennesimo errore tuo: nemmeno quello ti meriti adesso. Ah, addio.

martedì 10 luglio 2012

Purtroppo son desto



È tornato. Prima d’andare aveva scritto. Che voleva vedermi per non continuare nella spirale di frasi che, secondo lui, scrivo per dispetto. Che però intanto voleva chiarire un paio di cose. Ma lo fa solo a metà e questo m’infastidisce. Che non è arrabbiato. Solo che non può rispondere punto per punto dal suo cellulare, dal lavoro. E allora ne avremmo parlato di persona, lasciando fluire gli argomenti in modo naturale. 

Sono su una pedana rotonda di cemento che avrà forse due o tre metri di diametro. È altissima, sostenuta solo da un pilone. Non ci sono balaustre e dal bordo posso vedere di sotto: una grande pista per fare pattinaggio a rotelle da una parte, una piscina dall’altra. La vertigine mi terrorizza al punto che non posso stare in piedi, ma devo distendermi a pancia in giù, appiattirmi il più possibile a quella pastiglia bianca sospesa nell’aria e sforzarmi di non pensare all’altezza a cui si trova.

Che diavolo voglia dire “naturale”, per il momento lo sa solo lui. Infatti risulta essere in città da domenica sera, ma è già passato un lunedì intero nel quale ha mostrato tutta l’ansia che ha di vedermi: non un rigo, non dico una chiamata ma nemmeno un cenno di saluto. Avrà deciso (per il mio bene, suppongo), che era meglio così. Come sempre, sto al rimorchio. 

Con me c’è V. Mi sprona a saltare. “Se l’hai fatto anche ieri, scusa?”. “Sì, ma ieri dovevo nuotare e ho saltato nella piscina. Oggi dovrei pattinare!”. “Vedi tu”, mi fa V. sorridendo, e poi la vedo sparire. Resto solo, immobile, più angosciato che mai. Se voglio pattinare non posso buttarmi da qui, mi schianterei. Non posso nemmeno scendere per le scalette piantate nel pilone, non sopporterei la vertigine. Dovrei quindi tuffarmi in piscina ma ho una paura tremenda di sbagliare lato, di avere la mente troppo occupata a sopprimere il panico che sta crescendo dentro di me e quindi di non poter prendere correttamente la mira.

Tutto l’essenziale, tutto ciò che di veramente importante avevo da dirgli, l’ho scritto. Non mi nascondo dietro a un dito: la scrittura è l’unica risorsa utile che ho trovato nella mia vita per dare una forma decente al pensiero e non intendo rinunciarvi. Perciò ora, se vuole rispondere - dal vivo o su carta da bollo, cantando o declamando da un palco - per me è lo stesso, purché lo faccia.

Mi sveglio d’improvviso, ma la sensazione di vertigine non mi abbandona subito.

Sabato sera, invece, appuntamento con C. sul tardi nel quartiere gay. Il locale è popolato di una fauna giovane e mediamente carina. Un tipo con barba si agita vicino al bancone al ritmo della musica e mima un playback per il compagno che gli sta a fianco. Il primo bicchiere scorre giù bello fresco, benché alcolico, il secondo invece mi viene a noia. Cannetta sul marciapiede. Non c’è più la metro, allora via a prendere un bus notturno fino a casa di C., dove ci aspetta una coppia di amici, ospiti suoi per questo fine settimana. Una volta chiusa la porta della camera dove i due si apprestano probabilmente a dormire, ci abbracciamo distesi nel divano letto aperto nel salone. E scopiamo. Le sensazioni che provo sono di nuovo molto belle. Mi lascio andare, mi sento a mio agio, sento il suo desiderio mescolarsi al mio. Gli piace come glielo succhio e m’incoraggia a farlo. Mi scopa la bocca. I nostri corpi si avvinghiano più volte. C. è un appassionato del sessantanove ed è in questa posizione che rischio di venirgli in bocca, come durante il nostro primo incontro. Invece poi strofiniamo i cazzi l’uno contro l’altro, li impugniamo e, unendoli, ci masturbiamo. “Vengo”, mi dice C., allora io mi stendo al suo fianco e mi faccio schizzare addosso. Poco dopo, con la mano che ritmicamente agita il mio cazzo, godo anch’io.
Domenica, gita fuori porta con gli amici. Torniamo in città che è quasi notte, stanchi ma contenti. Ci sediamo in una terrazza per cenare. Lì ci raggiunge D., un amico di C.  Quando ormai è già tardi, decido di far ritorno a casa. “Se vuoi puoi fermarti da me anche stanotte”, mi dice C. Ma domani è lunedì e io ho già la testa inutilmente riposta altrove.