Mi risveglio quando il mio qualcosa — non è amore, non è neanche mio, per la verità — è già partito per la guerra. Siamo entrati nell’edificio, che s’intuisce antico, accompagnati da volti a me conosciuti. Allegri loro, triste io. Lui dice a un militare seduto al posto di guida di un autobus: “È qui che ci si arruola?”. “Sí, qui in fondo, a sinistra, entra lì”.
Il corteo ci segue. Lui ha il passo deciso, marziale, e sorride. Io penso: “Non può essere”. Eppure continua. Passiamo dei tornelli senza nessuna formalità. Uno degli accompagnanti si stacca dal gruppo, raggiunge una specie di bacheca e grida: “Guardate! La Stele di Rosetta!”. Mi avvicino. È una bussola che sembra fatta di filigrana, con scritte in francese. Il tempo di decifrarle e lui è già sparito, forse vestito con la mimetica, seduto in un camion verde scuro e diretto chissà dove. In mezzo a quella corte medievale mi piego per la disperazione, poi m’inginocchio e mi porto le mani alla testa. Gli altri stanno a guardare, silenti.
Ale aveva puntato la sveglia alle otto e undici. Quando lo aveva fatto e poi comunicato, era troppo tardi — le cinque del mattino? — per chiedergli il perché di una precisione tanto stravagante. Avevo sonno ed ero sazio. Però poi, alle otto e undici, l’ho sentito maneggiare il telefono e adagiarsi di nuovo sul cuscino. Cinque minuti più tardi, lo squillo definitivo. Ho acceso la luce e con gli occhi semiaperti ho scrutato il suo corpo nudo mentre cercava in terra i vestiti, separandoli dai miei. Si è rimesso gli slip, si è seduto al bordo del letto per indossare i calzini e allora si è girato verso di me con un mezzo sorriso. Il suo mezzo sorriso e il suo petto ricoperto di peli corti, la visione che aspettavo per dirmi: che bello essere ancora qui oggi.
Ricoperto da diversi strati di tessuto sintetico, si è inginocchiato sul letto, io sono uscito dalle coperte senza niente addosso e mi sono inginocchiato a mia volta. I busti eretti si sono uniti, ci siamo abbracciati. Era la milionesima volta ed era la prima, forse non l’ultima. Così forte. Grazie per la cena — non mi ringraziare, ti bacio il collo — sei molto gentile — non dire nulla, ti bacio la bocca — ecco così, fammi sentire solo il tuo respiro, e ti carezzo i capelli.
Mi hai detto qualche ora fa che, nonostante i tuoi studi — li terminerai con un po’ di ritardo rispetto ai tempi previsti — non vuoi intraprendere la carriera alla quale teoricamente saresti destinato. Qualcosa di simile alla mia. Hai altre ambizioni, che a me sembrano entusiasmanti ma così difficili da mettere in pratica, che... E allora tu fai: “Lasciami illudere, ho venticinque anni”. Quindi tutto precipita. Perché hai una bocca che mi fa morire, uno sguardo innocente capace di farsi torvo in un battere di ciglia, una pelle chiara da leccare e lobi piccoli da mordere. “Andiamo in camera”.
Ma da dove vengono questi baci? Sai dirmelo tu? Da quale granello di sabbia della tua isola eternamente soleggiata e colma di tedeschi in pensione? Perché le nostre bocche non riescono a staccarsi, le nostre lingue non smettono di muoversi, perché il mio respiro inciampa nel tuo una volta dopo l’altra e ci rotoliamo nel letto e le braccia gridano la loro voglia di stringere, avvinghiare? Che il tuo corpo non si stacchi dal mio troppo presto.
Come ti piace leccarmi le palle e poi il cazzo. Me ne sto disteso lasciandomi trasportare altrove. La tua lingua s’insinua anche nel mio buco. Vuoi tutto e io sono disponibile, volenteroso, aperto. Ti scopo la bocca, mi scopi la bocca. Mi metti disteso a pancia in giù e ti stendi sopra di me, sento il tuo cazzo premere contro il mio buco. Ti muovi e mi respiri nell’orecchio, stringendo le tue mani nelle mie. Inarco il bacino. Non serve che io gridi: “Ti voglio dentro!”, perché è già così evidente. Ho le lacrime agli occhi: desiderio, ineluttabilità, gioia estrema, l’idea che sei speciale.
Ti passo il preservativo, lo indossi, ci metti un po’ di lubrificante. Quando entri, sento che non è sufficiente. Non lo sarebbe. Eppure mi apro e allora siamo davvero quasi uno. Adoro ogni colpo di reni che mi regali. Ansimo e ti guardo negli occhi e mi baci. Poi ti metterai in ginocchio e io alla pecorina e sarai più duro, ma sono dettagli di una realtà impazzita. Ti tocco i coglioni mentre vai avanti e indietro. Faccio uscire il tuo uccello e ci mettiamo distesi uno di fianco all’altro, e ti abbraccio. Impugniamo i cazzi e li meniamo. Ti guardo e ti trovo talmente bello che in ogni momento rischio di cadere dalla corda tesa. “Ti manca poco”, “Sì”, “Vieni”, “Voglio che venga anche tu”, “Allora vieni”. Sorride. Sorrido. M’inarco, la testa reclinata, la bocca aperta in gemiti profondi. Gli bagno la mano che ha posato sulla mia pancia. La sua aumenta il ritmo e dopo qualche secondo finisce la sua corsa con una serie di strattoni. Schizza sul suo corpo il liquido bianco. Scoppia in una risata interminabile e contagiosa. Poi è un lavarsi silenzioso insieme nel bagno e dopo ancora coperte. Fa freddo, accoccoliamoci.
ciao, bentornato. Come va!? Buone feste
RispondiEliminaMolto bene, direi. Buone feste anche a te, Lupo.
Eliminaho pensato che ti fossi dato all'ippica. Stai bene?
RispondiEliminaPerché? Avrei dovuto?
Eliminaahahah... volendo
Eliminasei tornato.
RispondiEliminaEd ogni volta è un'emozione...
Ehi, che bello ritrovarti.
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