Blip. Una finestra che si apre. È un messaggio abbastanza lungo. Sembra scritto da una persona attenta e curiosa. Si sta interessando seriamente a chi sono davvero. Una sola foto, nella quale appare la testa e il busto di un ragazzo giovane, sorridente, barba corta e sguardo basso. Cattura la mia attenzione fin da subito. Non solo mi affascina il suo aspetto, ma anche quello che dice e gli apprezzamenti che fa su di me contribuiscono ad accrescere la mia curiosità: stranamente, infatti, non fa mai riferimento al mio fisico. Al secondo o terzo messaggio emerge, come un inciso, la spiegazione: in un mondo dove apparire è tutto, dove l’immagine che diamo di noi stessi (il corpo per come si offre allo sguardo, innanzitutto) serve a giudicare e a guidare le nostre scelte, a volte in modo definitivo, ecco un ragazzo per il quale potrei farmi ritrarre in mille pose differenti, mostrare il culo, il cazzo, il busto, la faccia... e non servirebbe a niente. Un riproduttore che legge quel che appare sullo schermo del suo computer è l’unico strumento che può utilizzare per decidere se vale la pena o no contattarmi. Per il momento, insomma, non sono un’immagine (non posso esserlo ai suoi occhi), ma solo le parole che scrivo.
Dobbiamo vederci oggi (“vederci”, come suona stonata nella mia testa questa parola adesso), ma c’è il mio lavoro e ci sono i suoi impegni... gli propongo un appuntamento all’una di notte, pensando che mi manderà a quel paese. Ne è entusiasta, “così avremo tutto il tempo di prendercela comoda, se ci va”. Maschile e tenero al tempo stesso, affettuoso fin dal modo che ha di calibrare le parole.
Durante la giornata ci mandiamo alcuni messaggi via Whatsapp. Predilige le note audio e nella prima mi chiede se posso inviargliene una, “mi piace sentire la voce”. Accedo volentieri alla richiesta e adesso non sono più solo parola scritta ma anche suono. Sto prendendo forma. Nelle sue orecchie.
E così, quasi alle due di mattina, gli vado incontro come avevamo concordato, lungo la via: eccolo lì, in mezzo alla carreggiata, il bastone bianco che tiene ben teso davanti a sé, la camminata sicura mentre scende verso la piazza. Maglietta, pantaloni corti, delle infradito nere e, intorno a una caviglia, una finissima catenina d’argento. “C.?” gli dico toccandogli un braccio, “sono Milk”. Mi sorride e sembra la gioia fatta persona. “Vuoi prendere una birretta?”, propone. “Ma no, è già tardi, la beviamo direttamente a casa mia”. “Va bene”, mi risponde, “ma prima devo comprare delle sigarette”. Dobbiamo avviarci a un locale che sta a due passi e mentre c’incamminiamo, il primo contatto fisico da parte sua: mi prende a braccetto e segue i miei movimenti. Gli spiego quel che vedo, ma mi accorgo presto che il più delle volte non serve: se faccio un gradino, lo sente e lo fa anche lui, se piego a destra o a sinistra, pure, se mi fermo si blocca.
“Tutto è scuro ma a volte vedo degli sprazzi di luce” mi dice quando siamo a casa, seduti sul divano, due birre già aperte e una sigaretta a testa in corso. “Questo mi aiuta a orientarmi meglio”. Appena entrati mi ha toccato il viso e poi il resto del corpo, il torso, le braccia, le gambe, descrivendomi ciò che ha “visto”. Ho preso ancora una volta forma. Nelle sue mani.
È una persona di una vitalità inusuale: abita da solo in un appartamento al piano terra e nel suo cortiletto ha piantato un piccolo orticello di zucchine e pomodori, ha un lavoro che gli permette di avere uno stipendio dignitoso, viaggia molto per passione, suona il pianoforte (“ma non so improvvisare”), va a teatro e ha anche recitato per una piccola compagnia. Ha portato con sé una piccola cassetta metallica dove conserva la maria, le cartine e la macchinetta per rullare.
Anch’io lo tocco, però in silenzio: le mie dita sfiorano le sue sopracciglia, così fine e morbide, la sua barba, accorciata da poco, l’attaccatura dei capelli, cortissimi, sul collo. Lì lo bacio, ripetutamente. “Che pelle morbida che hai”. “Anche tu”. Non smetterà mai di dirmi quanto si sente bene a stare lì con me. La verità è che i suoi abbracci e le sue carezze, così calde, mi rapiscono.
Continuiamo a parlare di noi, rolla una canna e ce la fumiamo. Facciamo salire lentamente la pressione e i baci che ci scambiamo diventano sempre più roventi. Ci leviamo le magliette e le carezze si fanno più ardite. Il suo petto peloso è ora il terreno d’incursione delle mie mani, della mia bocca e della mia lingua. Quando ci togliamo pantaloni e slip mettiamo mano ciascuno al cazzo dell’altro. Il suo è di discrete dimensioni, una cappella grande, larga, i coglioni sono molto grandi, lisci e pendenti. È circonciso. Mi sorprendo più volte ad assaporare le spalle e le braccia, dove la mia bocca passa e ripassa, o il suo petto, le sue gambe e il suo cazzo, dove si posa la mia mano: ad occhi chiusi, come se stessi prendendo esempio, come se ogni gesto non visto si riverberasse dentro di me con più forza.
Le carezze si moltiplicano all’infinito, finché mi fa mettere disteso a pancia in su e si sdraia su di me: gli piace sentire il suo corpo e il mio che si toccano in quasi tutte le parti. Si strofina contro di me e i nostri cazzi duri e pulsanti, là sotto, sembrano duellare. Sta piacendo anche a me, da morire. Ne approfitto per cingerlo in un abbraccio molto forte e poi scendo con le mani fino al suo culo, morbido e pieno, liscio.
Scivola con il corpo lungo il mio, fino a che la testa arriva all’altezza del mio cazzo. Adesso lo sta succhiando con notevole maestria: lavora bene su e giù lungo l’asta, non trascura la cappella, sulla quale rotea ora la sua lingua, poi se lo ficca fino in fondo alla gola ed è allora che i miei mugolii gli segnalano quanto grande è il bene che mi sta facendo. Lo faccio stendere a sua volta e gli ricambio la cortesia. Con altrettanta avidità gli succhio l’uccello e “Cazzo, che bello!”, mi dice e io continuo, forte di quell’incoraggiamento.
Passeremo più volte dalla fase orale, reciproca, a quella degli abbracci, delle carezze, delle leccate e dei piccoli morsi in ogni parte di quei nostri corpi che adesso, nell’appartamentino perso in questa grande città ormai inghiottita dal buio, si stanno godendo la loro festa. “Vorrei che mi penetrassi”, gli dico. Mi sorride: “Prima dovrei pisciare, mi sentirei più a mio agio”. “È che non resisto”, gli dico, “non riesco a lasciarti andare”. Ed è davvero così: con le mie gambe, adesso che mi sta di nuovo sopra, gli cingo i fianchi e lo tengo stretto a me. “Ci beviamo un’altra birra? Così mi torna molle e vado a pisciare, ok?”. Ci proviamo, ma io continuo a toccarlo e baciarlo e l’operazione sgonfiamento dura più del previsto.
Quando finalmente va in bagno, sembra ci debba lasciare un fiume intero. Al suo ritorno lo aspetto in piedi ed è un attimo: basta l’abbraccio, pelle contro pelle, i nostri corpi nuovamente vicini e i due cazzi scattano immediatamente sull’attenti. “Un sessantanove qui per terra, dài”, mi dice eccitato. Non me lo faccio ripetere due volte. Questa volta dovrò bloccarlo più volte per impedirmi di venirgli in bocca. Quando già non ce la faccio più, ci alziamo e mi dice: “Andiamo di sopra”. Lo guido fino nell’antro dove ci aspetta il tatami. Esplora l’ambiente con le mani prima di stendersi.
Gli succhio di nuovo l’uccello, poi prendo il tubetto che giace abbandonato in terra: “Prendo del lubrificante”, gli dico. “Va bene”. Inizio a lavorarmi il buco e lo stesso fa lui, infilandoci un dito. “Hai un preservativo?”. Glielo porgo e, in un attimo, lo indossa. “Come vuoi che facciamo?”, mi chiede. “All’inizio mi piace così”, gli rispondo, mettendomi a pecorina, “mettiti dietro di me”. Preme il cazzo contro il mio buco e lo infila lentamente. Quando è dentro fino in fondo appoggia il suo corpo contro la mia schiena e inizia a montarmi. Dopo un po’, mi fa stendere su un fianco e mi prende da dietro, con ancor più forza. Spingo la testa indietro, voltandomi verso di lui: cerca la mia bocca, ci baciamo a lungo mentre lui continua ad assestare i suoi colpi. Perdo un po’ di sborra, sono al limite dell’orgasmo, ma lentamente il suo corpo sembra spegnersi, come un lumino la cui fiamma si affievolisce poco a poco. “Sei stanco?” gli chiedo. “Beh, un po’...” mi dice sorridendo.
I movimenti cessano del tutto. Rido tra me e me pensando che è il primo ragazzo che si addormenta scopandomi, per di più col cazzo ben piantato nel mio culo. Lo faccio uscire, lui si sveglia giusto per il tempo necessario a togliersi il preservativo e porgermelo. Scendo di sotto per recuperare il cellulare e portarlo su. Guardo l’ora: sono le cinque e mezza. Una bella dormita non mi nuocerà di sicuro.
Ma ho il sonno troppo leggero questa notte, la prima in cui divido questo nuovo letto con un ragazzo non solo per scoparci insieme. Nella penombra della stanza e poi, quando entra più luce, lo osservo: il suo corpo longilineo se ne sta molle e completamente nudo, adagiato sul tatami. I tratti del viso sono fini e un po’ duri, ma l’espressione è rilassata e sembra quella di un bimbo. Le mani aggraziate sembrano cercare qualcosa anche nel sonno. Si può dormire davvero con una creatura così bella al proprio fianco? “Che fortuna”, penso e ripenso, ed è la stessa cosa che gli ho detto qualche ora fa.
Il risveglio è fatto di un supplemento di carezze e di parole dolci. “Scusami per questa notte, scusa”, mi dice. “Ma di che?”, gli rispondo. E comincio a spompinarlo. Adesso, stando disteso su un fianco, mi prende la testa fra le mani e mi scopa la bocca con foga, fino a togliermi il respiro. Poco dopo, è lui ad afferrare con una mano i nostri due cazzi uniti mentre gli sto sopra. È lui che muove freneticamente la mano in una sega cazzo contro cazzo che mi fa ansimare di piacere. Lo interrompo, gli dico che se continua non riuscirò a trattenermi. Allora è lui a dirmi: “Vieni, non ti preoccupare, vieni, anche a me manca poco”. E io allora mi lascio andare e bagno la sua mano, il suo uccello e la sua pancia con la mia sborra. Quasi contemporaneamente vedo degli schizzi bianchi uscire dalla sua cappella e cadere sul suo petto.
“Quasi quasi ti proporrei di andare a fare colazione fuori”, mi dice C. poco dopo, mentre siamo stesi uno di fianco all’altro. “Dopo passo a casa mia a prendere la torta che ho preparato per salutare un amico che se ne va domani. Andiamo tutti a mangiare al parco. Se hai tempo più tardi, potresti venire anche tu”. “Grazie, ma devo vedere un amico, ho già preso un impegno con lui”.
Le nostre chiacchiere proseguono nella terrazza del bar vicino alla chiesa del mio quartiere, poi lo accompagno fino alla stazione della metro. È ormai l’una. “Mi piacerebbe rivederti”, mi dice. “Anche a me. Ci chiamiamo, va bene?”, gli rispondo. E gli indico la direzione che deve prendere dopo i tornelli. Riemergo e mi ritrovo di nuovo immerso in un gran sole estivo. Respiro profondamente e mi guardo attorno: tutto è colore, vita, movimento. Fermo vicino all’edicola, mi aspetta il mio amico.
Bellissimo il racconto..Bellissima anche la faccenda, vedere il sole e rendersi conto che è sereno anche dentro di te riempie di speranza.
RispondiEliminaPeccato siano sensazioni tanto effimere. O forse meglio così, altrimenti non potremmo godercele davvero.
EliminaTu mi lasci sempre senza parole
RispondiEliminaIo invece trovo le parole per commentare il tuo blog ma non posso scriverle perché non riesco a entrarci (lo leggo da reader). Soluzioni?
Eliminanon so proprio cosa dirti...
EliminaBellissimo, il più bello di tutti, credo.
RispondiEliminaNon è il racconto, è questo ragazzo che è molto bello. Intendo anche dentro.
EliminaAnche tu sei molto bello...
EliminaBelli entrambi,bella la vostra intesa già dal vostro primo incontro...
RispondiEliminaSì, diciamo che ci siamo piaciuti. ;-)
EliminaSono senza parole anche io. Leggerti mi sconvolge sempre (non intendo in senso negativo comunque)
RispondiEliminaQuesta volta un pò di più del solito
Beh, grazie!
EliminaQuesto racconto va vissuto piú con le sensazioni che con le parole; è bellissimo il modo in cui lo hai raccontato: istinti, ricerche. Dev'essere stata un'esperienza molto intensa.
RispondiEliminaSì, molto intensa, soprattutto in certi momenti. Il calore trasmesso dalla vicinanza dei corpi era, evidentemente, molto più importante dell'osservazione pura di ciò che quei corpi stavano facendo.
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