Il ratto si trova sotto il letto. Fa rumore, sta morsicando qualcosa. Perché è lì? Sta nascosto, ha paura. Fugge dallo sguardo dell’uomo disteso sul letto. Perché teme di essere cacciato. Si è introdotto in una casa che non è sua. È brutto, ma resistente. Fastidioso, ma tenace. Potrebbe essere colpito o persino ucciso dal padrone di quella casa. Eliminato, fatto sparire. Come se non fosse mai esistito. Per paura di essere molesto, ecco perché se ne sta là sotto, il ratto.
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“Se tu fossi il ratto...?”
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Apre il pacchetto e me ne porge una. “Grazie”, gli dico. Accendiamo. Poco prima è avvenuto l’incontro fintamente fortuito, nella piazza che sta appena sopra questo piccolo parco verde in mezzo alla città. Un messaggio inviato con studiata nonchalance: “Vado a leggere il giornale nella solita piazza”. Fine della batteria, il telefono si spegne. Scrive, invano: “Quale?”. Poi: “Quale piazza?”. Prova a chiamare tre volte. Bip-bip-bip. Nemmeno la segreteria. Eppure, dopo qualche minuto, è già lì. Col cagnone appresso. Con la maglietta rosa addosso. Le collanine attorno al collo, i braccialetti di cuoio, gli occhiali neri che non lasciano intravedere i suoi occhi profondi, scuri, aguzzi. Con la pelle abbronzata. Con i jeans rotti davanti e perfetti sul culo. Con le sue spalle larghe, pista d’atterraggio per la mia bocca. “Vado nel parco qui vicino, vuoi venire?”. No, Paj, non voglio, figurati. Me ne voglio restare qui solo, in questa piazza di merda, perché voglio godermi lo smog delle macchine che passano e stringere gli occhi fino a chiuderli per il troppo sole che mi sta picchiando contro (no, io non porto occhiali, né neri né a specchio). E tu vai pure, ché il messaggio l’ho scritto così per fare.
Ed eccoci allora nel parco. A parlare di me. Di me. Di lui. Di me. Di me. Di me. “È molto onesto quello che dici”. “Cerco di essere onesto, sì”, rispondo io.
Fermare il movimento, restare intrappolati: impossibile, sarebbe morire. Correre sempre come pazzi, senza mai essere soddisfatti della meta raggiunta: esigenze impossibili, richieste e pagate a caro prezzo. È stato ferito come lo sono io ora. È guarito? Sto guarendo.
“Hai da mangiare a casa?”. Attenzione, domanda indiretta. Non colgo.
“Sì”.
“Intendevo dire: vuoi pranzare a casa mia?”.
L’ombra su di lui è perfetta, la luce intorno pare aumentare. Sorrido di gusto. Assaporo lo sguardo.
“Sì”.
Non hai tagliatelle? Gli spaghetti andranno bene. Prepariamo il pranzo insieme. Un po’ di vino, tutto bene.
Poi dice: “Sono stanco, vorrei dormire un po’. Dormi anche tu?”.
“Potrei leggere il giornale, mentre riposi”.
L’uso diplomatico del verbo “dormire” non è mai stato il mio forte. Dormire per me è chiudere gli occhi e abbandonarsi a Morfeo. A Morfeo, non a me.
“Puoi venire a dormire anche tu e il giornale lo leggi dopo”. Era dunque un dolce eufemismo. Faccio un cenno affermativo con la testa.
“Non ti senti obbligato? Sei libero di scegliere, vero?”, dice Paj, osservandomi dal basso delle mie braccia, dove ha messo la testa, verso i miei occhi.
“Certo”, dico io.
Mi distendo per primo, lasciandomi addosso solo gli slip. Quelli leggeri col bordo viola. Si distende anche lui, completamente nudo. Insinua una mano sotto i miei slip e li fa scivolare via.
“Niente tessili, per favore”. E mi sorride. E mi bacia. Ci abbracciamo e già il nostro respiro diventa affannoso. Perché abbiamo aspettato tanto? A morderci l’incavo del collo, a leccarci la schiena e le orecchie come animali, a mangiarci le bocche e i capezzoli come se dovessimo sbranare i nostri corpi.
L’impossibile sfida di tenere tutto il suo cazzo in bocca, in gola, mi fa girar la testa e per questo mi impegno. Lecco per bene, ma poi succhio, sbocchino, provo delle gole profonde e lo sento mugolare ogni volta che la sua cappella sfrega la mia gola, il mio palato, ogni volta che la mia lingua gli regala piacere.
“Come ti piace far bocchini...”, mi dice guardandomi con occhi colmi di lascivia.
Rispondo gemendo, la bocca piena del gran pezzo di carne che si ritrova fra le gambe il bel Paj.
È disteso, allunga le braccia verso di me, mi mette due mani sulla testa e muove il bacino per scoparmi la bocca. Ce l’ha così grande che quasi soffoco, trattenendo il respiro perché possa mettermelo più in fondo che può. Quando si stanca, ricomincio io, impugnando l’asta alla base e muovendo la testa su e giù, facendo scorrere la bocca sul suo cazzo con ancor più impeto, finché con uno scatto si mette seduto e allontana la mia testa.
“Mi piace come me lo succhi, Milk”.
Gli sorrido: “E a me piace succhiartelo. Un casino”.
Mi fa mettere a pecora e comincia a dare grandi leccate al buco, alle natiche, fino a che il mio culo non mostra chiari i segni della mia eccitazione, dilatandosi. Allora ci infila un dito, spingendo più in fondo che può. Lo estrae, se lo lecca e poi lo rituffa dentro di me. E poi lo estrae di nuovo, s’impugna il cazzo, grande e durissimo, e con quello schiaffeggia le mie natiche, poi passa e ripassa la cappella in mezzo, sfregandola più volte contro il mio buco.
“Non ti preoccupare, non ti fotto senza preservativo... sto solo giocando”.
“Gioca, Paj, gioca che mi piace...”.
Ma gli eventi prendono un’altra piega per un colpo di testa mio. Se ti piace come succhio, questa volta potrebbe andare diversamente. Allora mi sfilo dalle sue grinfie, mi metto sotto di lui a pancia in su, e mi rimetto in bocca il suo cazzo. Ho di nuovo voglia di spompinarlo.
Lui allora si distende di nuovo e io, accovacciato fra le sue gambe, ricomincio il servizietto, mentre con entrambe le mani gli tormento i capezzoli.
Ad un certo punto, mi lascio scivolare oltre il bordo del letto, mi metto in ginocchio sul pavimento e lo invito a mettersi in piedi davanti a me. Gli lecco i coglioni, mentre lui si mena il cazzo. Poi lo punta sulle mie labbra, io le schiudo e lo succhio. Più di una volta lo estrae e, impugnandolo, lo passa sulle mia labbra o lo sbatte contro il mio viso e poi me lo rimette in bocca.
Finché: “Se continuiamo così io vengo, mi manca pochissimo”.
Allora cerco di riprendere in mano la situazione, gli afferro il cazzo e lo sbocchino, però molto lentamente, fermandomi a giocare con la lingua sulla cappella.
Si distende di nuovo, con le gambe piegate oltre il bordo del letto e i piedi che toccano il pavimento. Io rimango inginocchiato davanti a lui e lo spompino. Lo sento gemere sempre più forte e lo vedo strizzarsi i capezzoli con forza. Con la sua nerchia in bocca, scivolando su e giù, cerco di contemplare il suo bellissimo corpo. Sono eccitato, ce l’ho duro.
Quando faccio scorrere la lingua lungo tutto il suo cazzo, scendo a leccare i coglioni e poi comincio a succhiarli alternativamente, lo sento incoraggiarmi, ansimando: “Le palle, sì, così...”. Comincia a masturbarsi mentre io continuo, finché lo sento tremare, i muscoli contratti, e gemere forte. Lo vedo schizzare la sborra a pochi centimetri da me. Ne percepisco l’odore e non resisto più. Leccandogli le palle, mi tocco il cazzo, me lo meno e in breve tempo anch’io vengo, macchiando i suoi pantaloni corti, incautamente gettati in terra.
Gli porgo dei fazzolettini perché si asciughi. Dopo, ci addormentiamo nudi, abbracciati l’un l’altro. È la nostra siesta.
[sospiro...] Ti ho letto, grazie...
RispondiEliminaEh, prego, non c'è di che! ;-)
Eliminami sfugge cosa c'entra il ratto con questa bella scopata!!
RispondiEliminaIl ratto viene prima della bella scopata. Era un sogno, o meglio: la sua interpretazione. E getta nuova luce sui precedenti post riguardanti Paj. Su come finiscono, soprattutto.
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