sabato 30 giugno 2012

Con R. sull'altalena

Manca: "Amore + Sesso = Coppia"


“Milk, siediti qui un secondo e parla con me. Sono il tuo Diario”.
“Dimmi, che c’è?”.
“C’è che quando scrivi di R. ti vedo un po’ strano e vorrei capire cosa ti passa per la testa. Perché davvero, io lo percepisco quando tenti di riordinare le idee su di lui: fai e disfi, cancelli in continuazione, ti contraddici ogni due linee,... Insomma: sembra che non sappia nemmeno tu quello che ti sta succedendo. Sono preoccupato”.
“Sei la solita rottura di coglioni. Quando fai così non ti sopporto”.
“Faccio finta di non aver letto. Non sarà, come dicono in molti, che ti sei innamorato di questo R.? Non sarebbe più semplice ammetterlo?”.
“Io non so più cos’è amore, perciò evito di pronunciare quella parola. L’unica cosa che so è che, quando passo un po’ di tempo con lui, condividendo una cosa qualsiasi - sesso, cibo, chiacchiere, la visita a una mostra, una birra al bar, ... - mi fa star bene”.

“Ti va di scopare stasera?”. Il messaggio è semplice e diretto. Del resto, era stato proprio lui a dirmi che se volevo trombare potevo andare dritto al sodo, “perché ormai c’è fiducia tra noi”. E allora eccoti servito, caro R. Sono appena uscito da una settimana decisamente positiva in quanto a incontri, diciamo che sono sazio e più che soddisfatto sessualmente, eppure voglio te. Starti un po’ vicino. Condividere qualcosa.
“Ah! Sto mangiando e non posso pensarci adesso”, risponde lui.
No, bello, non mollo l’osso: “Io invece sono molto eccitato e dilatato”, insisto.
“Ahahah. Io sto dilatando lo stomaco. Aspetta un momento e ne parliamo”.

“Uhm. Bello. Però che mi racconti di quando ti fa star male? Hai capito perché alle volte ci stai così male?”
“Credo che sia perché non mi può dare tutto ciò che mi piacerebbe avere da lui. Non parlo di esclusività dal punto di vista sessuale: che lui desideri scopare con altri (con molti altri) e io voglia fare lo stesso, è stato chiaro a entrambi fin dall’inizio. Nessun inganno, non ci siamo mai presi in giro. Ho sempre pensato che amare qualcuno significa lasciarlo libero: non sono riuscito ad applicare questo principio nella lunga storia che ho già vissuto e che si è da poco conclusa, perciò questa volta non voglio sbagliare. Se sente questa necessità (come la sento io), che la soddisfi senza problemi. Ciò che mi disturba è forse il fatto di sentirlo raccontare continuamente di tutti quelli che si tromba, nel senso che proprio non m’interessa saperlo, perché non mi dà né mi toglie nulla. Anzi, qualcosa sì mi toglie: il tempo che sprechiamo nel chiacchierare di questo invece di costruire qualcosa di bello insieme, per noi. Ma, a parte questo, nessuna gelosia”. 
“E allora? Perché puoi arrivare a stare così male con lui?”.
“Perché mi manca il suo sentimento. Non riesco a capire cosa prova davvero per me. ‘Non voglio farti promesse che so di non poter mantenere, non ti voglio illudere, Milk’, mi ha detto una sera. ‘Io non posso giurare oggi che fra sei mesi o un anno io non m’innamori di te o di qualcun altro, il fatto è che io adesso non riesco più a provare amore per nessuno. Sono felice? No, non lo sono, però è così’. Ricordi quando lo disse?”.
“Sì, quella sera che tu t’incazzasti perché aveva un appuntamento con un tipo, ma era uscito con te”.
“Già, non potevo proprio tacere: un po’ di rispetto, quello almeno sì. Aggiunse che era ovvio che per me provasse affetto. Ovvio... mah. Il fatto è che io spero sempre di essere per lui qualcosa di più di un ragazzo qualsiasi, ma alle volte mi sembra solo una stupida illusione. Ovvero: mi sembra la proiezione, su di lui, di un bisogno che, in realtà, è solo mio. Anche se, e te ne sarai accorto anche tu, il suo atteggiamento ultimamente è cambiato. È più affettuoso, più attento, persino più rilassato di prima: io credo sia dovuto al fatto che adesso non mi faccio più nessuno scrupolo a raccontargli pure io i dettagli delle mie avventure. Col che, probabilmente, pensa che io abbia acquisito un certo distacco. Come si sbaglia!”.

(Due ore dopo) “Se vuoi, possiamo vederci a casa mia alle 6 e mezza, perché nella tua stanza di sopra il sole batte con troppa forza”.
“Però io prima ho da fare, meglio più tardi”.
“Se non vogliamo sudare molto dovremmo farlo a casa mia. Oppure non sarebbe male anche a casa tua, però lentamente”.
“Io nella parte di sotto ho l’aria condizionata, quindi abbiamo tre possibilità: o mi fai un culo così a casa tua, o mi fai un culo così sul mio divano oppure ci vai leggero nella stanza di sopra”.
“Va bene, a casa tua alle 8”.

“Ma insomma, cosa siete, adesso, l’uno per l’altro?”.
“Questo è il lato positivo e, al tempo stesso, negativo di tutta la faccenda: non so dare un nome alla nostra strampalata relazione né a quella che mi piacerebbe avere. Forse ciò che desidero sarebbe, tecnicamente, una ‘scopamicizia’: due ragazzi che si conoscono per scopare, approfondiscono la conoscenza, si piacciono come amici e continuano a trombare di tanto in tanto, ma senza stabilire un’esclusività in nessun campo della loro vita. Non sono ‘solo’ amici ma non sono nemmeno ‘coppia’. L’aspetto positivo è che, in assenza di modelli forti come può essere quello della coppia classica, si può essere molto creativi e reinventare la relazione ogni giorno, costruendola su misura e riservandosi piacevoli sorprese. Quello negativo è che io precipito facilmente nella paura e nella mancanza di fiducia in me stesso: sento di non piacere abbastanza, di non essere capace di costruire un rapporto appagante né per me né per l’altro. Fondamentalmente, riducendo la questione all’osso, credo di non interessargli abbastanza”.
“Ed è effettivamente così?”.
“Boh, direi che io mi piaccio assai poco ed è difficile che uno con un’autostima così bassa possa interessare agli altri, ti pare?”.
“Dunque R. non c’entra niente, sarebbe così anche con un altro?”.
“No, R. c’entra eccome, perché anche lui ha un vissuto per il quale in questo momento non vuole che nessuno pretenda niente da lui. Non desidera rinunciare alle cose belle che gli altri gli possono offrire, però solo finché per ottenerle non deve sacrificare niente di ciò che già ha. Potrebbe sembrare egoista, e lo è. Eppure io lo capisco”.

E viene a casa e ci baciamo, ci abbracciamo. Si toglie la maglietta, smanetta un po’ sul mio computer. Gli bacio la schiena, gli carezzo il petto. È allegro e scherza, io sono allegro e gioco con lui. Poi scopiamo. Lo facciamo, questa volta, con molti baci, con carezze reciproche. Mentre sono a pecorina, mi lavora il culo con le dita e il lubrificante. Io impugno il suo cazzo, lungo, grosso e durissimo e penso a quanto mi piace. Lo appoggia contro il mio culo, mi eccito ancora di più. La cavalcata è lunga e molto piacevole, ma la cosa più bella è l’orgasmo: illusione di essere uno solo in quegli istanti in cui le grida, i gemiti, il nostro stesso fiato, si fondono in un’unica canzone. E lui si piega su di me, ancora scosso dai suoi tipici fremiti, ancora ben piantato dentro di me, e mi bacia. E lo bacio. E poi sul divano a farci carezze. E lui, a ricordare quando gli sono stato vicino, e io a sorridere di questa tenerezza che mi sembra nuova e bellissima. Poi usciamo, è già tardi, a cenare in un ristorante indiano. Poi un’ultima birra, già stanchi. “Sono stato molto bene”, mi dice sulla soglia della metro, dopo avermi baciato. “Anch’io. Ciao”, gli dico, pensando a questo momento che non posso catturare, che non posso fare del tutto mio.

“Intravedi qualche soluzione? Perché questa altalena continua tra euforia e dolore, mi sembra ti stia nuocendo non poco”.
“La soluzione sarebbe troncare di netto e dirgli: vederti e non poter ‘stare’ con te nella maniera che io vorrei mi sta facendo soffrire più di quel che riesco a sopportare. Finora ho resistito, aiutato dalla gioia che provo per averti conosciuto e per condividere parte della mia vita con te, ma adesso è meglio che la finiamo qui. Il punto è che io questo non voglio dirglielo perché non voglio perderlo. Non ancora”.
“E allora soffri, cretino!”.

Al tavolo del bar nella piazza invasa letteralmente di gente vociante, ormai a notte inoltrata, lo incontro con due suoi amici. Parlano di viaggi che hanno fatto insieme, non ho modo di inserirmi nel dialogo. Poi siamo in un altro bar, solo per smangiucchiare qualcosa e bere l’ennesima birra. R. viviseziona con lo sguardo i ragazzi seduti al tavolo vicino al nostro. Tenta un approccio con uno di loro in un bagno, senza successo. Cominciano a girarmi i coglioni, perciò decido di concentrarmi sulla mia stanchezza. Ce ne andiamo di lì a poco, R. mi accompagna fin sotto casa, a piedi. Ci congediamo con un abbraccio e un bacio.
Rientro a casa pensando che non lo chiamerò né gli scriverò più. Che la prossima volta che ci vedremo sarà perché vuole vedere proprio me, e non perché si sta annoiando. Che ne ho abbastanza.

giovedì 28 giugno 2012

Che fine avrà fatto Ilona?



A volte capita. Programmi un incontro con qualche giorno di anticipo, il tipo sembra affabile e ben disposto e, sebbene qualche dettaglio qua e là ti faccia sorgere più di un dubbio, tutto sembra filare liscio. Fino a che, giunta l’ora x, il tipo sparisce. È un bisessuale: gli va forse concessa l’attenuante? Sarà stato al suo primo incontro con un ragazzo e si sarà pentito all’ultimo momento?
Francamente... Di cazzi ne ho avuti a sufficienza e, con poco impegno, altri ne avrei potuti avere. Perciò me ne infischio e decido che questa domenica la dedicherò alla mia amica V., che non vedo da un bel po’: so che ha passato un brutto momento e ho molte cose da raccontarle. Il timore che avevo prima d’incontrarci, cioè di trovarla triste e di non poterla tirare su, dal momento che anch’io avrei dovuto riferirle accadimenti non proprio gioiosi, svanisce quando finalmente ce l’ho davanti. È sempre lei, V. la forte, la passionale, la caparbia V. Prendiamo una birretta in casa mia, ma fumiamo troppo e l’aria, dopo due ore, si fa decisamente irrespirabile. Usciamo quindi a prendere qualcosa. Nel quartiere, adesso, ho i miei punti d’appoggio per i momenti belli e per quelli brutti e ci sediamo quindi in una terrazza a prendere qualcosa di leggero. L’asfalto sembra liquefarsi, i palazzi restituiscono il calore del sole moltiplicato per cento, le piante e tutti gli abitanti di questo bubbone di città sembrano evaporare e svanire nell’arsura. La gente che vedi in giro, se non è seduta sulle panchine all’ombra degli alberi, agitando nervosamente le mani davanti al viso con l’illusione di scacciare in quel modo il calore, cammina per strada lenta, lentissima. 
Verso le dieci di sera, mentre il sole tramonta, suona il cellulare di V.: è la sua ragazza che la reclama. Paghiamo il conto, ci salutiamo ed io mi avvio verso casa, dove mi aspetta una cena parca, una serata tranquilla con l’idea, finalmente, di andare a letto presto e dormire molto.
Pia illusione. Accendo il computer e mi metto in chat: vuoi vedere che si è collegato il bi? No, non c’è. Però... Blip! Mi scrive un venticinquenne, biondo, sorriso a novanta denti e lingua sciolta:
“Mmmm, che sorriso! E chissà cosa ci sarà dietro... ;-) Che bocca baciàbile!”.
“Beh, grazie... Però anche tu hai un sorriso molto bello”.
“Grazie! Ti va di conoscerlo?? Vado al sodo, perché mi sembra di capire che ti piace così...”.
“Ovviamente”.
Il dialogo si fa poco a poco più surreale, leggermente inquietante:
“Mmmm, che ne dici di questa notte? Per terminare il fine settimana di San Giovanni insieme, divertendoci? Un po’ di sesso (o molto), chiacchierare, e quello che ci va, ahahahah”. Ha scritto davvero “il fine settimana di San Giovanni”? Strabuzzo gli occhi.
“Certo che vai dritto al sodo, sì. :-) Va bene, e come facciamo?”.
“No, beh, dipende... Vengo io o vieni tu e poi veniamo insieme... ahahahah... E, mentre ci conosciamo fisicamente, possiamo condividere anche cose mentali, sempre che ce ne siano... ahahahah. E possiamo bere una birretta, visto che fa molto caldo e così, attraverso questo procedimento, liberiamo i nostri ormoni che si accumulano nei nostri corpi a causa del calore, eccetera. Che te ne pare?”.
A me pare che mi sta prendendo in giro o che, con ogni probabilità, si tratta di un pazzo scatenato. M’incuriosisce molto, perciò continuo:
“Va bene, allora, ci conosciamo fisicamente e mentalmente, liberiamo ormoni e, attraverso il medesimo procedimento, anche endorfine. Mi sembra una buona idea, sì”.
“Io sto in piazza Tale. Sto in casa di un’amica che è in vacanza e mi ha lasciato le chiavi per annaffiare le sue piante ahahahah. Mi ecciterebbe farmi una scopata qui ahahahah. Però se non vuoi muoverti, posso venire io, mi piace camminare”.
Ospitalità, Milk, ospitalità innanzitutto:
“Ascolta, hai già mangiato? Te lo chiedo perché io non ho ancora mangiato niente, sicché se vuoi puoi venire qui e, dopo aver espulso quello che dobbiamo espellere (ormoni ed endorfine, intendo), possiamo cenare. Non ho molto però possiamo arrangiarci con quel che c’è. Più tardi possiamo uscire a prendere una birra in via Tizio o nei dintorni”. 
“Fantastico!! Dieci minuti fa mi è venuta una fame... Ahahahah... Geniale!!”.
E qui inizia, nella mia testa, il film horror: 
“Dammi l’indirizzo esatto esatto”, mi scrive, “perché stanotte mi è morto il telefonino”.
Dunque, ricapitolando: di lui so solo che ha venticinque anni, è carino e gli è defunto l’unico mezzo al quale potrei raggiungerlo e dal quale risalire, se ce ne fosse bisogno, alla sua identità. Non so dove vive e non ho uno straccio di numero di telefono. La versione light della sceneggiatura che già si srotola nella mia mente, prevede come minimo il furto del computer e della carta di credito con relativo codice, a cui seguirebbe una più che seccante denuncia alla polizia; e se poi non lo beccano e questo torna? Sottovariante: si presenta con “un amico che vuole scopare anche lui, è attivo, non preoccuparti”, così sarà più semplice per loro tenermi a bada mentre riempiono il bottino. Nella versione splatter, invece, questo simpatico ragazzo è effettivamente un maniaco omicida che, solo dopo aver scopato e precisamente per quello, mi congelerà, fatto a quarti, nel mio stesso frigo. E addio Milk.
“Preferisco venirti a prendere io stesso alla fermata della metro Caio”.
“Va bene, tra quanto tempo vuoi che arrivi? Io posso uscire subito”.
“Diciamo alle 23,30?”
“Va bene. Indosso una maglietta con una bandiera della Gran Bretagna, sicché è facile riconoscermi. Mi chiamo A.” (ed è un peccato non poter riportare il nome per esteso, perché sembra uscito dritto dritto dalla penna di Alessandra; elemento che aggiunge inquietudine a inquietudine).
M’infilo in bagno per una doccia rapida e intanto dico a me stesso che, qualsiasi cosa sospetta io noti, anche la più stupida, non lo farò salire. “Ufff, che sete che ho! Incredibile! Andiamo a prendere qualcosa al bar, subito!”. Suonerà artificiale, ma è sempre meglio che finire al camposanto.
Si avvicina l’ora e io muoio d’ansia e di curiosità. Mi vesto con maglietta, pantaloni corti, infradito. Da qui alla fermata della metro sono pochi passi, un minuto e mezzo a piedi, secondo i miei calcoli. Basteranno, al ritorno, per intuire chi sto per mettermi in casa? Lo scorgo da lontano: sembra corrispondere alle caratteristiche della foto e porta, effettivamente, una maglietta con i colori dell’Inghilterra. Ci salutiamo e cominciamo a parlare, avviandoci verso casa. Mi sembra che vada tutto bene: si vede che gli piace parlare e relazionarsi con gli altri ed è pure un po’ complimentoso.
Tutte le paure vengono dissipate quando siamo in casa. È davvero uno studente, viene dall’Ungheria ed è qui da quattro anni per studiare Storia dell’arte all’università. È un po’ più basso di me e sorride in continuazione mentre parla ed agita nervosamente il corpo, quasi volesse sottolineare e poi prolungare fisicamente quel che dice. È molto simpatico, pieno di vita, un bel po’ scapestrato (ma quale studente straniero non lo è, alla sua età?) ed è proprio questa freschezza che mi piace in lui. Ha la curiosità e la vitalità tipica dei vent’anni e con lui, adesso, bevo birra e accendo sigarette con le piastre elettriche, visto che il mio accendino è passato a miglior vita. “Davvero si può accendere anche con le piastre? Non lo sapevo...”, gli dico io, sentendomi di colpo vecchio, ricordando i miei tempi all’università. “Come no... Dopo ci accendiamo anche una candela, così non dobbiamo ripetere continuamente l’operazione”...
Le chiacchiere si fanno dense e sempre più divertenti: Italia-Ungheria è un bel match. Decido però di trasferire le birre dal tavolo grande al tavolinetto davanti al divano e di accendere la lampada piccola. Ci sediamo vicini e l’ambiente, ora più intimo, aiuta il contatto: delle mani, innanzitutto, che esplorano il mio petto e il suo, poi delle nostre bocche e delle lingue, che si allacciano e non vogliono allontanarsi l’una dall’altra mentre l’attenzione si concentra ora di più sulle gambe, poi sui rispettivi pacchi e infine sul mio culo. Ad un certo punto, ci leviamo di colpo tutto, maglietta e pantaloni.
“Io non porto gli slip”, mi avverte sorridendo, “ultimamente li trascuro un po’...”. E che m’importa? Adesso vedo un bellissimo paio di coglioni, grossi, morbidi e penzolanti, sormontati da un uccello già quasi completamente in tiro. Ci sediamo uno di fianco all’altro e cominciamo a masturbarci reciprocamente, mentre ci baciamo. Il suo cazzo s’impugna bene, sarà lungo quanto il mio, ma è più fino. Dopo un po’ mi chino e comincio a succhiarglielo. Gli piace e mi chiede di continuare. Mi metto allora in ginocchio davanti a lui, lo prendo in bocca e mi dedico all’operazione con molta cura. Cerco di farlo scendere in gola più che posso e, quando è dentro al massimo, lo sento gemere. Allora gli accarezzo le palle, le prendo nella mano a coppa, sollevandole. Poi le lascio andare di nuovo, le accarezzo e poi le lecco e le succhio tirandole delicatamente con la bocca.
“Sono molto piene”, mi dice A., “credo che verrò in fretta”.
Quando riprendo a spompinarlo, mi prende la testa con le mani e comincia a muovere il bacino su e giù per scoparmi la bocca. “Non vuoi mettermelo in culo?”, gli chiedo io. “Preferisco che mi faccia un bocchino, mi piace”. Io allora continuo e dopo un po’ lo sento gemere: “Vengo!”. Allora lo toglie dalla bocca, se lo mena e in pochi secondi lo vedo schizzare sul suo petto, dove la sborra calda, in notevole quantità, si deposita sui suoi peli. Anch’io, nel frattempo, mi sono smanettato e ho goduto, là sotto. “Spompini proprio bene, sai?”, mi dice asciugandosi con un po’ di carta igienica.
La cena, che sarebbe stata già molto frugale anche solo per me, diventa spartana se divisa in due. Me ne scuso con lui, ma non gliene importa granché. Continuiamo a parlare, seduti al tavolo grande bevendo vino, completamente nudi. Mi piace moltissimo il suo corpo e, soprattutto, adoro come lo porta in giro: ha una dimestichezza, una naturalità, una sfrontatezza, quasi, nel fumare nudo e nel muoversi davanti a me senza il benché minimo pudore. Sembra quasi che la sua nudità riempia la stanza e riaccenda il desiderio continuamente. Lì è la sua vera bellezza.
“Scusa”, mi fa a un tratto guardandosi il cazzo, fattosi duro come la pietra, “credo di essere di nuovo eccitato”.
“E perché ti scusi? Adesso ci penso io”.
E così si siede di nuovo sul divano, io m’inginocchio e ripetiamo l’operazione che tanto gli garba. Veniamo così una seconda volta, ansimanti e sudati, felici, elettrizzati. Gli propongo di andare a letto, visto che sono già le cinque di mattina. Dormiamo profondamente finché, alle nove e mezza, A. mi sveglia e mi fa: “Io penso che dovrei andare, il dovere mi aspetta” e io rido, pensando alle enormi responsabilità che devono incombere su questo venticinquenne. “Va bene, però a pancia piena. Facciamo un po’ di colazione e poi vai, che ne dici?”.
Pane tostato e marmellata, tè e ciliegie è tutto ciò che posso offrirgli. Ben contento, A. divora tutto e mi chiede dell’ungherese più nota in Italia, Cicciolina. Che fine avrà fatto Ilona Staller? E ridiamo come scemi raccontandoci stronzate per due ore. A. se ne andrà verso le undici e mezza. Io resto a casa, un po’ stordito e molto allegro, pensando ai casi della vita.

mercoledì 27 giugno 2012

Gli equilibristi

Imbambolato. Sguardo fisso, perso nel vuoto. Sferragliare di carrozza. Persone che si muovono, fischi di freni, rumore di porte metalliche che si aprono e si chiudono. Mi lascio trasportare. I colori dominanti sono bianco e blu. Linea uno. Di questa città mi piacciono persino le sue parti più sordide, persino la metropolitana e la sua grafica orribile, da sussidiario. Penso a questo e al mio destino: saranno come nelle foto? Come sarà la loro casa? Come inizieremo? Perché sono stati così poveri di parole e così risoluti? 
Mancano poche fermate. Dalla borsa a tracolla prelevo il foglio dove ho stampato la piantina di GoogleMaps con il percorso dalla stazione della metro a casa loro. Non è complicato, basta imbroccare l’uscita giusta. 
Il sole cocente del pomeriggio e il caldo afoso m’inghiottono, una volta riemerso dalle viscere della città. Che quartiere assurdo. Non sono poi così lontano dalla casa di C.: viali enormi dal traffico intenso, dove si affacciano palazzi imponenti e anonimi e poi, dietro le quinte, vie più strette con case basse, alcune vecchie, altre decrepite ed altre ancora costruite da poco. Popolare. Distante dal centro. Sullo sfondo, le torri del quartiere moderno.
Arrivo al numero civico che mi hanno indicato. Tre piani in ascensore e sono a casa loro. Mi apre A., “il biondo nelle foto”, come ha scritto lui stesso in chat. È alto, di corporatura forte, sorriso aperto, pizzetto. Dietro di lui appare subito il suo ragazzo, M.: carnagione scura, moro, occhi scuri, più basso. È stato facile trovare il posto? Oddio, sì, mi sono un po’ incasinato a qualche via da qui, ma niente di che: ho solo suonato a un campanello che non era il vostro e, per fortuna, non mi hanno risposto! Sì, una Coca-cola va benissimo, grazie. Sono italiano, sì. Parlo bene la vostra lingua? Beh, grazie. Qui mi occupo di questo e quest’altro, e tu? Ah, ho capito. E tu, M.?
Sono entrambi molto sorridenti e affabili e si respira un’aria di assoluta tranquillità. Un ambiente rilassato, due padroni di casa accoglienti, il divano ampio dove adesso siamo seduti e una bibita fresca è tutto ciò che occorre. Non posso dire di essere un novellino dei trii, ma è la prima volta che mi capita di incontrare una coppia consolidata e, per di più, formata da due attivi. Entrare, seppur per pochissimo tempo, nella vita di due persone che vivono insieme da undici anni e che nella loro relazione hanno stabilito delle regole che tu riesci appena a intuire, può avere delle conseguenze importanti. O no: potrebbe essere - e così deve essere, almeno nelle intenzioni dichiarate - solo una bella scopata. “Sei agitato?”, mi chiede A. “No, direi di no... mi sento bene”, rispondo io. “No, lo dico perché il ruolo della persona un po’ ansiosa spetterebbe a te...”, e ridiamo. E poi: “Vieni qui”. Basta che io mi sposti di qualche centimetro per cadere fra le sue braccia e scoprire che A. bacia proprio bene.
A. è quello che fa più domande, A. prende l’iniziativa e probabilmente è sempre A. a condurre il gioco nella sua coppia. M. si muove dopo, come se quei baci lascivi sulla mia bocca e i morsi sul collo fossero il segnale convenuto. Lo sento avvicinarsi e sedersi al mio fianco. Adesso sono in mezzo ai due e bacio M. Mi piacciono entrambi allo stesso modo, mi sento perfettamente a mio agio e comincio a sentire anche una certa eccitazione. Mi sfilo le infradito e subito A. coglie l’occasione al volo: “Sì, mettiamoci più comodi” e si sfila la maglietta e si toglie i pantaloni. Così facciamo anch’io e M. Quasi completamente nudi, riscaldiamo l’ambiente con i baci, le carezze, i morsi, i giochi delle dita sui rispettivi capezzoli, mentre si gonfiano i cazzi ancora nascosti dagli slip. È M. ad abbassarmeli e a far uscire il mio uccello che adesso lui tocca. Le loro mani s’intrufolano ovunque sul mio corpo ed io perdo poco a poco il controllo.
Succede allora che M. si mette in piedi vicino a me, si toglie gli slip e avvicina il cazzo duro alla mia testa. Inizio a sbocchinarlo. È un cazzo di dimensioni medie, molto scuro, circonciso, cappella abbastanza grossa. Mormora il suo godimento mentre anche A. si alza e si posiziona dietro M. per osservarmi e accarezzare il suo compagno, e baciarlo. M. mi mette le mani sulla testa e spinge il suo cazzo dentro, in una gola profonda che, a quanto pare, gli sta piacendo molto. Dopo un po’ si sposta sul divano, dove io giaccio quasi disteso, sistemandosi tra le mie gambe aperte. Nel frattempo A., che ha già provveduto a liberare il suo cazzo, si avvicina e me lo offre. È più o meno della stessa taglia di quello di M., solo di un colore più chiaro e non circonciso. Mi dedico al compito con molta dedizione, però stavolta mugolando di più, perché M. ha provveduto a rendermi il favore e me lo sta succhiando con notevole abilità.
Abbiamo i cazzi duri e pulsanti: quello di A. nella mia bocca, il mio nella bocca di M. e quello di M. nella sua stessa mano. Scivoliamo lentamente verso limiti superiori: M. infatti s’incarica di ricordarmi perché siamo lì e come questa storia deve andare a finire, ficcandomi un dito nel culo, mentre continua a spompinarmi. Al tempo stesso, A. prende la mia testa fra le sue mani e a sua volta compie l’operazione già sperimentata da M., cioè mi scopa la bocca. Lui lo fa con più foga, osserva attentamente le mie reazioni e ansima forte. Quando non resisto più, e a modo di pausa, guardo A. fisso negli occhi e faccio scivolare la punta del cazzo contro la parete interna di una delle guance, per deformarla e mostrargli quanto mi piace tenerlo in bocca. Poi può riprendere, fino alla pausa successiva. 
Adesso è di nuovo il turno di M., che vuole utilizzare ancora la mia bocca per farci entrare e uscire il cazzo ma soprattutto per altre gole profonde. Sento A. dire sottovoce: “Vado un attimo su” e poi lo intravedo salire rapidamente la scala a chiocciola che porta, evidentemente, alla loro camera da letto. Ne ridiscende quasi subito e appoggia sul tavolino davanti al divano un tubetto di lubrificante e un pacco gigante di preservativi. A. si mette allora vicino al suo compagno. Io mi diverto a spompinare alternativamente sia l’uno che l’altro e poi provo pure a mettermeli in bocca entrambi, mentre loro si baciano con passione.
Già sento che non posso resistere oltre, quindi mi metto a pecorina davanti a loro, m’inumidisco un dito e lo passo sul buco finché non lo infilo dentro. Nel frattempo A. e M. indossano ciascuno un preservativo e si menano il cazzo dopo averlo lubrificato. Li osservo con la coda dell’occhio e vedo che M. rivolge uno sguardo interrogativo ad A., chiedendogli solo: “Io?”. A. gli risponde con un cenno affermativo. Allora sporgo il culo, M. si avvicina, si sistema anche lui in ginocchio dentro di me. Poi sento che preme il cazzo contro il mio buco. Lo infila piano e a me piace un sacco e i miei mugolii lo indicano chiaramente. Adesso mi sta fottendo, con colpi lenti ma determinati, il busto reclinato verso la mia schiena e la sua faccia vicina alla mia. Cerca la mia bocca e mi bacia, mentre  il ritmo aumenta poco a poco finché lo sento ansimare forte. Di colpo, lo sfila e si allontana. È il turno di A. Probabilmente a causa del fatto che non incontra ostacoli, anzi, trova il mio culo già dilatato, entra senza problemi. Eppure, stranamente, a me all’inizio brucia un po’. Quando però comincia a darmi dei colpi forti, ad entrare e uscire sbattendomi per bene, provo di nuovo una sensazione piacevolissima.
Dopo un po’, A. decide di passare la mano, o meglio, il mio culo, al compagno, che torna alla carica. Mentre M. mi monta, A. gli dà delle pacche forti sul culo, come se volesse spronarlo. M. adesso mi sta chiavando come un forsennato, ansima tanto che temo possa venire da un momento all’altro. Invece si trattiene e lo sfila di nuovo.
“Mettiti qui, a pancia in su”, mi chiede A. Io obbedisco e porto le mie gambe piegate verso il petto, il culo in aria, ben offerto ad A. che si stende su di me, s’impugna il cazzo e me lo infila dentro. Io metto le mani sul suo culo che ondeggia ritmicamente sopra di me, accompagnando i movimenti del suo bacino. Ci guardiamo fisso negli occhi: mi piacciono i tratti del suo viso, così marcatamente maschili. Aumenta il ritmo della penetrazione, mentre M., dietro di noi, osserva come il cazzo del suo compagno entra ed esce dal mio culo. “Mi manca poco”, mi dice A. “Ti piace?”, gli chiedo io. “Eccome”.
E poi si abbandona, godendo piano, senza gridare, solo ansimando. Un ultimo affondo, secco e profondo, sancisce la fine dei movimenti, la conclusione dell’orgasmo. Prima di sgattaiolare fuori da me, il preservativo colmo di sborra e un’espressione seria in volto, mi bacia con la lingua. Lo prendo come un ringraziamento o un riconoscimento. Mentre A. si allontana per buttare il preservativo e lavarsi un po’, M. ed io ci osserviamo. Siccome non sembra decidersi, prendo io l’iniziativa: “Come vuoi che mi metta?”, gli chiedo. “Come vuoi tu”. Ah, sì? Allora opto nuovamente per una pecorina. M. mi fa spostare con le ginocchia ai bordi del divano, di modo che lui possa sistemarsi in piedi dietro di me. Mi afferra i fianchi e comincia a penetrarmi con molta forza. Il mio corpo è scosso dai colpi del suo bacino contro di me. A. nel frattempo è tornato e, un po’ in disparte, si gode la scena. A un certo punto, quando il va e vieni si fa frenetico e M. inizia a gemere sempre più forte, capisco che sta sborrando. Allora con pochi movimenti della mia mano, mi scarico anch’io, mettendo l’altra mano a coppa sotto il mio cazzo, perché possa riceverne gli schizzi.
Dopo sono sorrisi reciproci, un rapido passaggio in bagno per ripulirci un po’, e infine siamo di nuovo nel saloncino, dove ci rivestiamo e continuiamo le nostre chiacchiere, adesso con una confidenza del tutto nuova, che suona strana, speciale. Quando chiedo se i loro trii con altri ragazzi sono frequenti, dopo un piccolo smarrimento da parte di entrambi, come un inciampo all’inizio di un sogno, mi rispondono di no, ma che questo può variare: in certi periodi di più in altri di meno, dipende dal caso. Non cercano ossessivamente, ma lasciano che le occasioni sorgano più o meno da sole. La conversazione scivola spensierata su molti temi: la cucina, la regione da cui proviene A. e che io conosco grazie ad alcuni amici, la loro terrazza, le feste che organizzano, i vicini...
Quando capisco che si è fatto tardi e prima di diventare molesto, prendo su le poche cose che ho con me e mi congedo. “Volevo solo dirvi che ho passato dei bei momenti con voi, che mi sembrate simpatici e che, se vi va, uno di questi giorni possiamo rivederci”, è il messaggio che lascio in chat il giorno dopo, mentre non sono collegati. “Anche noi ci siamo divertiti molto. Ripeteremo di sicuro! Un bacio”, è la risposta.

domenica 24 giugno 2012

Un eroe nel mio letto

“Mi fa piacere che tu stia bene adesso. Mi sarebbe piaciuto visitarti”. J. è entrato da poco con il suo solito sorrisone e poi con il suo abbraccio avvolgente. Io, magro come sono, mi sento bene fra le sue braccia, toccando la sua schiena e ascoltando le parole dolci che mi sussurra. Si rallegra di vedermi in forma dopo una breve malattia e mi offre di nuovo il suo appoggio nel caso dovessi averne bisogno. Un medico lo è sempre, dentro o fuori dell’orario di lavoro, e percepisco chiaramente che per J. si tratta di pura vocazione.
J. è giovane, bello, alto e forte. Il fatto che sia medico gli conferisce un’aura quasi eroica e quindi, ai miei occhi, erotica. Oggi, ancora una volta, mi piace accarezzare la sua testa rasata e baciare la sua pelle nera, soprattutto nell’incavo tra il collo e la spalla. I baci sulla bocca si susseguono lenti, profondi e sempre più prolungati, finché non so più se siano questi ultimi a spezzare la nostra conversazione o se siano le parole a diventare poco a poco superflue. Il respiro di entrambi si fa ora più pesante e le sue mani scivolano sui miei pantaloni, all’altezza del culo, stringendolo forte. È un gesto che mi parla della voglia di J., delle sue intenzioni; mi fa sentire desiderato e, di conseguenza, aumenta il mio desiderio. Ora la mia mano preme contro il rigonfiamento dei suoi pantaloni e subito dopo ci togliamo la maglietta. Ancora quell’abbraccio e ancora quei baci, adesso sensuali, pieni di passione. Togliersi scarpe, pantaloni e slip è un attimo. Torniamo a baciarci mentre gli meno il cazzo, durissimo. 
Non resisto alla tentazione: mi inginocchio davanti a lui, apro la bocca e comincio a succhiarglielo giocando un po’ con i suoi coglioni, prima accarezzandoli e poi stringendoli con una mano e tirandoli verso il basso. Lo sento ansimare e, quando sollevo lo sguardo senza togliermi dalla bocca quel bel pezzo di carne scura, lo vedo intento a osservarmi, serio. A un certo punto, lascio la presa e passo dal cazzo alle palle, leccandole e succhiandole piano, con delicatezza e risalendo poi con la lingua lungo l’asta, fino alla cappella, alla quale do leggere stilettate. Poi è di nuovo dentro la mia bocca. Metto le mie mani sul suo culo e lui allora mette le sue sulla mia testa e inizia a muoversi avanti e indietro. A un certo punto, tenendo ben ferma la mia testa, affonda dentro la mia bocca fino a premere la cappella contro la mia gola. “Mmmmh”, lo sento pronunciare, con tono grave. Poi altri colpetti e poi di nuovo mi pianta il cazzo in gola. Continua così per un po´, finché mi abituo e la bocca scivola quasi fino alla base del cazzo e il labbro inferiore lambisce la pelle dei suoi coglioni.
Mentre ancora lo tengo in bocca, lo sento muoversi. Lo faccio uscire. Sta cercando i pantaloni, che giacciono appoggiati a una sedia. Da una tasca estrae un preservativo. “Ti voglio scopare”, mi dice. Io allora mi alzo e lo prendo letteralmente per il cazzo: glielo stringo e lo tiro delicatamente, mentre cammino verso il sofà. Lì mi aspetta il lubrificante: ne prendo un po’ dal tubetto e me lo spargo sopra il buco, spingendone un po’ dentro con un dito. Sono eccitato e pronto, sicché mi sistemo sul divano a pecorina, arcuando la schiena il più possibile, per offrire meglio a J. il mio culo. Una volta srotolato il preservativo, si mette dietro di me, se lo impugna e me lo infila dentro. Ormai J. ha imparato a capire i segnali che il mio corpo gli invia e, siccome la reazione che ho è unicamente di piacere e non di dolore, si sente sicuro e comincia subito a penetrare con forza, sbattendolo fino in fondo. Come me, si appoggia al bordo superiore del divano, in modo da ottenere non solo una penetrazione profonda, ma anche la vicinanza dei nostri corpi. A un certo punto si blocca e, continuando a tenerlo infilato dentro di me, mi mormora all’orecchio: “Mi piaci Milk, mi piace il tuo culo”. “E io adoro il tuo cazzo, soprattutto quando me lo metti dentro”. “Mmmmmh”, mi dice di rimando, e si erge di colpo in piedi dietro di me, afferra bene i fianchi e ricomincia la sua corsa, se possibile con maggior impeto.
I colpi che mi dà sono talmente forti che, ogni volta che il cazzo è infilato fino in fondo, sento chiaramente i suoi coglioni sbattermi contro. A un certo punto sollevo la gamba destra per poggiare il piede sul divano: in questo modo sono ancora a pecorina però posso vedere nello specchio come entra ed esce il cazzo di J. dal mio buco. Tuttavia, quasi subito mi accorgo che mi sta chiavando con meno vigore, un poco impacciato, e intuisco che la posizione non gli è congeniale. Quindi appoggio di nuovo il ginocchio destro sul divano e trovo conferma nelle sue parole: “Oh, sì, così, mi piace questa posizione”. Dopo un po’, poggia di nuovo le braccia vicino alle mie, si china su di me e sento il suo cazzo pulsare dentro. “Stai venendo?”, gli chiedo, incredulo. “No, ma mi manca poco”, mi risponde. “Ti piace come si apre il mio buco per te?”, gli chiedo io. “Sì, mi piace il tuo culo e mi piace scoparti. Sei un passivo perfetto”, mi risponde e intanto ricomincia la monta. Adesso capisco, dalla brutalità dei suoi movimenti, che non si fermerà finché non avrà terminato. E infatti, dopo poco, annuncia: “Vengo!”. E io, quasi gridando sì, sì e sì, mi scarico quasi contemporaneamente a lui. 
Completamente bagnato di sudore, sfila il cazzo dal mio culo ed io osservo per un attimo il preservativo, pieno del suo liquido bianco.
La chiacchiera di fine pasto non è precisamente amena: parliamo di medicina e di un caso clinico da lui trattato in passato. Era giunto in terapia intensiva con una patologia cardiaca molto grave, dal pronostico estremamente incerto. Ventotto anni. Lo ha rivisto qualche tempo dopo per strada, sano, felice e grato. Mi racconta che sul momento ha resistito, ma poi, dopo essersi congedato dal suo ex paziente, per strada ha pianto di gioia.
“Ci vediamo, spero presto”, mi dice J. già sulla soglia di casa. “Chiamami per qualsiasi cosa”.
“A presto, J.”.

venerdì 22 giugno 2012

Come il giorno e la notte

E viene M., e mi rendo conto di come ciò che mi aveva colpito di più del suo aspetto fisico, a parte il cazzo, era la barba che sfoggiava nelle foto e che gli ingentiliva il viso. Un tempo, perché adesso che ce l’ho qui davanti, ben rasato, mi sembra più vecchio e molto meno interessante. In ogni caso decido che quello che deve accadere, accadrà comunque, perché la delusione non supera la voglia che ho di essere scopato e perché nelle premesse esprimeva una carica sessuale a me congeniale.
Una bella chiavata, non sarò certo io a negarlo. Il cazzo è lungo e grosso, con una cappella grande e si succhia che è un piacere. La fase orale dura relativamente poco, mentre quella anale è più lunga e articolata. Rapida apposizione di preservativo e inserzione in posizione pecorina, io in ginocchio sul bordo del divano, lui dietro, in piedi. Tiene ben stretti i miei fianchi nelle sue mani e sbatte forte. Poi mi metto a quattro zampe però parallelo al divano e lui in ginocchio dietro di me gioca col suo cazzo variando la penetrazione, da profonda a quasi superficiale, da forte a leggera. Poi mi vuole in piedi, piegato quasi a novanta gradi e con le braccia appoggiate alla parete, le gambe divaricate, e mentre mi fotte mi sussurra: “Dovrebbero rendere obbligatorio incularti”.
Ma l’apoteosi la raggiungiamo quando mi fa mettere in terra, a pecorina sul tappeto, mi chiede se mi piace prendere cazzi in culo ben sapendo che con ogni probabilità la risposta sarebbe stata, com’è stata, “Sì, molto”, e poi mi monta da dietro però non stando in ginocchio, bensì sopra di me, flettendo le gambe e posizionandole intorno ai miei fianchi. L’angolatura della penetrazione è bestiale, sento il suo cazzo scivolare dall’alto verso il basso e aprirmi ancora di più il buco. Comincia allora una monta sfrenata e brutale, che mi vede completamente sottomesso e molto, molto gaudente. Terminiamo così, quasi gridando, in un orgasmo che mi sembra più lungo del solito.
Abbiamo finito e io non avrei molto altro da dire. Di più, dopo la doccia mi piacerebbe rivestirmi, ringraziarlo e aprirgli la porta, perché non mi va di conversare e nemmeno di approfondire la conoscenza. Ma lui mi blocca quando sto per infilarmi gli slip, mi fa sedere accanto a sé e poi distendere sopra di sé, dandogli le spalle. Mi accarezza, mi fa molti complimenti che io non ricambio. Vuole un po’ di romanticismo, mentre io desidero fermamente che con lui tutto resti confinato nel sesso. Possibilmente in questo unico incontro, perché ho la netta impressione che non vorrò rivederlo. Quando si accorge che divento freddo e non ricambio le sue attenzioni, se ne esce con un: “Visto che non mi vuoi, me ne vado”, molto seccato. Strano modo di ringraziare il tipo che ti sei appena inculato, sì. Relax, it’s only sex. Si veste in fretta ed esce. Penso: finalmente.
Non è molto tardi, sicché invio un messaggio whatsapp a R.: “Ciao, come stai? Ti va di andare a prendere qualcosa?”. La risposta è immediata: “Sono con amici, eventualmente più tardi ti faccio sapere”. Aha. Bene, mi fa piacere per lui, no? “Ok”, gli rispondo, “divertiti”. Non faccio quasi in tempo a inviare il messaggio che squilla il telefono. All’altro capo, C., allegro come sempre: 
“Ehi bello! Come va, dove sei?”. 
“A casa, però volevo uscire”. 
“Ascolta, io sono a casa mia con due amici, stiamo bevendo qualcosa qui nel mio cortile, perché non vieni anche tu?”.
Ecco: R. e C., due mondi a confronto, come il giorno e la notte. “Più tardi eventualmente” vs. “perché non vieni anche tu”: che avreste fatto?
Il tempo di vestirmi (in)decentemente, di prendere la metro e di perdermi cercando la via dove abita C., in quel dedalo che è il suo quartiere, e i due amici di C. se ne sono già andati, sostituiti da altri due personaggi davvero interessanti e simpatici. La birra scorre a fiumi e, quando finisce, ci resta il coraggio per prepararci dei cocktail home made abbastanza orrendi, ma sufficientemente alcolici. La conversazione scorre così amena, lubrificata anche dalla maria che circola in giuste dosi, che il tempo passa senza che ce ne accorgiamo. A notte fonda, prepariamo delle tartine con del formaggio fresco fatto in casa da amici di C. e del salmone affumicato. Quando finiamo di sbranarle e decidiamo che sì, un po’ stanchi siamo, sono ormai le tre e mezza.
Poco dopo, a letto con C. riusciamo a scambiarci solo poche parole e molte carezze, finché ci addormentiamo entrambi di colpo, abbracciati l’uno all’altro. Qualche ora dopo, alle sette e mezza per la precisione, alzarsi è una tortura, alleviata solo dal caffellatte che ingurgito rapidamente con C. in un bar vicino a casa sua. Poi è la metro, il sole maledetto e il ritorno a casa. Questa mattina, infatti, ho appuntamento con J., il mio medico favorito.

domenica 17 giugno 2012

Uno


Ci lasciamo all’ingresso della stazione della metropolitana con la promessa di chiamarci e di rivederci presto. C. farà ritorno a casa sua mentre io mi dirigo verso il centro. È una di quelle innumerevoli, splendide giornate calde nelle quali il sole sembra non voler tramontare mai e il cielo è d’un azzurro denso e compatto, vergine. Sono questi i momenti in cui adoro di più questa città.
Scosso dai movimenti del vagone, compongo il numero della segreteria telefonica e ascolto il messaggio che mi ha lasciato R.: “Ciao, come va? Hai bisogno di un maschio? Se la risposta è sì, chiama!”. Senti, senti, R. versione maialetto, quanto mi eccita. La sera comincia a prendere un’altra piega proprio nel momento in cui mi accorgo che, un’ora fa, mi ha lasciato anche un messaggio via Whatsapp, riferendosi alla musica che gli avevo chiesto di poter trasferire sul mio computer: “Ti va di scaricare musica dal mio apparato riproduttore mentre giochi con l’altro mio apparato riproduttore? L’offerta scadrà quando scoppierò e dovrò masturbarmi”. Rido come uno scemo, seduto tra due passeggeri. “Dimmi che hai resistito”, gli scrivo. “Sì”, mi risponde immediatamente. “Yessss!”, giubilo io. “Sono disperato”, continua, “voglio sborr...”. “Tieni(lo) duro! Dammi il tempo di arrivare, sono ancora lontano”. “Dove? Posso portare il giochino che ho comprato l’altro giorno...”.
Insomma, è evidente: R. ha molto caldo stasera e ha voglia di spassarsela più ludicamente del solito. Sia lodato Priapo! Sempre sia lodato. Sorrido dentro di me pensando a quello che ci aspetta e mi piacerebbe che il conducente le saltasse tutte queste maledette stazioni, per catapultarmi direttamente sotto casa. 
Sicché: mi faccio una doccia rapida, scambio ancora frenetici messaggi via Whatsapp perché nella fretta il giochino se l’è dimenticato e se n’è accorto una volta sceso nella metro. Quindi deve tornare a casa, correre di nuovo verso la stazione, e infine eccolo qui, bellissimo mucchietto d’ossa con barba, occhi azzurri, occhiali, maglietta e pantaloni corti,  polpaccetti pelosi, scarpe da ginnastica, apparati riproduttori e giochino erotico. Abbraccio caloroso non troppo, bacio sulla bocca. 
E adesso sono distrutto. 
E ma va, non dirmi, proprio ora che sei qui. 
E aaaah sì, mi sa che ti dovrai dare molto da fare. 
E tu non preoccuparti, intanto mettiti comodo e dammi il primo apparato che lo collego al computer.
Quindici giga di file audio e svariati minuti per capire dove poterli immagazzinare. Tempo previsto per scaricare il tutto? Un’ora circa. Quanto basta per giocare un po’ fra noi. Mi siedo sul divano al suo fianco e comincio a slacciargli la cintura. Meno male, ha ancora un po’ di forza per collaborare: si toglie tutto in una volta, perché cosa fatta capo ha. Anch’io mi spoglio completamente. Poi si distende sul divano e mi dice, guardando il suo cazzo floscio: “È un po’ timido stasera”. Già, già. Allora lo bacio sulla bocca, ripetutamente, e ripetutamente scendo con la bocca sul collo e poi gli lecco un orecchio, lo mordo e lo succhio con la segreta voglia di staccarglielo, di sbranarlo intero. Sono inginocchiato in terra mentre lui sembra disteso su un altare sacrificale; potrei prenderlo tra le mie braccia e simulare una Pietà, uscir di casa con lui così come siamo, nudi, e mostrarci al mondo per quello che siamo. Ecco i nostri corpi, sì, due uomini che si amano, son forse brutti?
Ma le mie mani sfiorano ora quel corpo villoso, la sinistra s’intrufola malandrina tra le sue cosce, cerca il suo culo, l’altra carezza il petto e delicatamente - come piace a lui - stimola i capezzoli. Stanotte si gioca alla pari e qualche variazione la introduco io, caro R. “Posso leccarti il buco del culo?”. Non capisce o è stupito. “Posso leccarti il culo?”. Accenna un sì con la testa e io allora gli sollevo le gambe. Eccoti esposto come di solito non sei, caro R., la tua parte più intima a disposizione. Lecco il suo buco e spingo un po’ dentro la lingua. Il suo cazzo, quel suo bel cazzone, ha ripreso vita, turgore, magniloquenza. E finisce nella mia bocca, ovvio, però adesso Milk per favore: coordinamento e concentrazione. Perché mentre lo spompini devi portare la tua mano sinistra al suo culo dove il dito indice sfregherà delicatamente il buchetto insalivato di R., mentre con la mano destra darai energici scossoni al tuo, di cazzo, orfano di maschie carezze.
Il quadro è completo, mano e bocca di Milk ben impegnati a dare piacere al caro R., probabilmente concentrato e inquieto per quanto può accadere alla sua più recondita intimità, finora così poco violata. Entra. Poco a poco, con molta delicatezza, ma entra. “Mettici lubrificante, è meglio”. Ma certo, che problema c’è. Eccoti servito. Si muove lui stesso per far entrare di più il mio dito e respira profondo, mentre il suo cazzo pare scoppiare nella mia bocca e il mio nella mia mano. Mi carezza la schiena, il culo. Quando cerco di mettergli due dita: “No, scusa, mi fa un po’ male...”. Va bene, torniamo allora a uno solo, ma stavolta cerchiamo di stimolare la prostata. Lo sente. Gli piace. Ma a un tratto supplica: “Toglilo, per favore, adesso brucia. Vorrei provare il giochino”. 
È un tubo in una sostanza gommosa trasparente, composto, per dir così, da anelli di diseguale diametro, in modo che il cazzo, una volta infilato, possa essere adeguatamente stimolato manualmente, facendo scorrere l’attrezzo lungo l’organo stesso. Ah, e c’è una sorta di “morsa”, dello stesso materiale, per stringere i coglioni alla base e farli partecipare del movimento. Cospargo l’interno del tubo con lubrificante e glielo porgo perché lo indossi. Lo osservo masturbarsi e mi sembra che gli piaccia. Io lo tocco e... mi tocco. E lo bacio. E, insomma, sono qui R., sono qui con te, cucù. Sembra leggermi nel pensiero: “Adesso ti chiavo”, mi dice sorridendomi.
E si toglie dal cazzo il giochino e si mette in piedi mentre io assumo la posizione che preferisco: alla pecorina, le ginocchia sul bordo del divano, la testa quasi contro la parete. Sporgo il culo, glielo mostro, lo apro con una mano mentre lui indossa un preservativo, sparge qualche goccia di gel sul suo cazzo e poi lubrifica il mio buco. Mi piace sentire la sua mano decisa, due dita che entrano di colpo e allargano, si fanno strada rapide, con movimenti frenetici, nel mio culo già dilatato dall’eccitazione. Non ha bisogno di perdere tempo in preliminari: lo sbatte dentro in un solo colpo, fino in fondo. E mi piace quel possedermi in maniera brutale, la soddisfazione di una sua necessità che però è anche mia.
Sto provando un godimento intenso, giro la testa e gli sorrido mentre mi incula con forza e si sfiora i capezzoli. Ansimo perché la sensazione piacevole che si espande da dietro al resto del corpo, risale fino alla testa e lì pulsa e lì batte, come se mi stesse chiavando tutto intero, dalla testa ai piedi. Di tanto in tanto interrompe i movimenti di va e vieni e ne compie alcuni in senso circolare, come a voler allargare il buco ancora di più, regalandomi nuove sensazioni.
Poi riprende la cavalcata e sento che il ritmo aumenta. Giro la testa verso lo specchio. Non ho voluto farlo fino adesso perché conosco ormai la sensazione di vertigine che mi dà vedere un maschio penetrarmi, entrare nel mio corpo, ficcarci il cazzo e spingere. Vedo i muscoli delle sue gambe contrarsi, il suo bacino muoversi avanti e indietro, il suo bastone grosso e duro entrare e uscire dal mio culo, i coglioni ondeggiare. Le mie gambe sono piegate, aperte, il mio culo offerto. La sensazione di piacere si fa così intensa che diventa quasi insopportabile. Contraggo volontariamente lo sfintere e l’effetto è praticamente immediato: sento il cazzo di R. diventare, se possibile, ancora più grosso. Lo sento ansimare, mentre adesso i colpi si sono fatti più violenti. Sono certo che gli manca poco per terminare e io non oso toccarmi il cazzo: verrei all’istante.
“Sto per venire”, mi avverte concitato, ed io gli rispondo: “Sì, sì, sì”. Mentre io sborro sul divano, R. si lascia andare al suo orgasmo più bello ed intenso, e sono tante “oooooh!” prolungate, accompagnate da colpi secchi, distanziati e profondi e poi piccoli tremiti, come dei sussulti, mentre si china su di me e grugnisce il suo piacere più vicino alle mie orecchie. Una volta di più, vorrei che non uscisse da me, vorrei illudermi di averlo catturato, di averlo fatto mio come lui mi ha fatto suo. Ma ecco che si ritira soddisfatto.
Ha finito di scaricare? Sì, sentiamo un po’... e passiamo due ore tra file audio e video su Youtube. La musica è il pretesto per parlare di noi, di ricordi, di sensazioni andate e forse perdute per sempre. Come eravamo e come siamo. Del come saremo, neanche mezza parola. “A questo punto, o me ne vado a casa adesso o mi fermo a dormire qui”, mi dice quando sono ormai le due e mezza. “Fermati qui. Domani mattina andiamo a fare colazione fuori presto così non saremo in ritardo al lavoro. Che ne dici?”. “Io mi sto divertendo”. Sarà il suo modo di dire sì...
Più tardi facciamo ancora qualche chiacchiera al buio, distesi nel letto. Quando gli dico “buonanotte”, mi mette una mano sulla pancia e io allora gliela carezzo. Ci addormentiamo così, di nuovo scopamici. La mattina dopo, le sveglie dei nostri cellulari non vogliono proprio far passare le sette senza buttarci giù dal letto. Meglio, dal tatami. R. è girato di schiena, dorme solo con gli slip. Gli bacio il collo e poi ricamo con la bocca la sua schiena giù giù fino al culo. Gnam. Non so dire se ne è cosciente ma finge di no oppure se è ancora addormentato. Fatto sta che, poco dopo, per strada, è meno scorbutico e intoccabile dell’altra volta che ci siamo risvegliati nello stesso letto, occasione che sicuramente avrà già rimosso e dimenticato, distratto e poco interessato com’è.
Godo della sua presenza ancora qualche minuto, mentre al bar sorbiamo il caffè e le prime notizie catastrofiche della giornata vomitate dalla tv. Poi è un bacio sul marciapiede a dirci arrivederci, ci sentiamo, alla prossima. Buona giornata, R.
***
Ma davvero vuoi gli altri episodi di questa insensata trilogia? Il primo è qui e il secondo qui.

sabato 16 giugno 2012

Due

Il giorno dopo le dichiarazioni del calciatore che dice quello che pensa, in un momento di pausa, lancio a V. un’affermazione che suona più o meno così: “Certo che se Cassano è in nazionale, sono problemi loro. Andrebbe curato”. Ho il sorriso sulle labbra, m’illudo forse di raccogliere un commento altrettanto duro e la solidarietà di una collega che credo amica. “Io non penso che sia malato e che volesse davvero dire quello che gli attribuiscono”, mi lancia, seria.
Ecco, io non finirò mai di stupirmi, e d’incazzarmi anche, davanti a persone capaci di trovare qualsiasi scusa, anche la più palesemente idiota, pur di giustificare un omofobo. È qualcosa che va oltre ogni possibile mia comprensione: perché solo con gli omosessuali possiamo permettercelo? “Hanno eletto un negro alla Casa Bianca? Problema suo”: possiamo immaginare che qualcuno faccia una simile dichiarazione alla stampa senza che si sollevi contro di lui - e giustamente! - un coro di voci indignate? Eppure, se un’affermazione del genere riguarda i gay o le lesbiche, sembra che sia meno grave, perché le responsabilità vanno cercate, di volta in volta, non nel soggetto che la pronuncia, ma: nell’ambiente che frequenta, nell’educazione che ha ricevuto, nella cattiva interpretazione dei giornalisti, nel fatto che la persona in questione è stata “provocata” da pennivendoli maligni, nell’eccessiva (seppur ammirevole, dicono) schiettezza del personaggio,... Una serie di scuse penosissime che, guarda caso, pochi si sognerebbero d’invocare in altri casi di discriminazione, di razza, per esempio, di religione o di genere. “Ti hanno violentata? Anche tu però, girare per strada vestita in quel modo...”.
Quello che perfino persone a noi vicine ci comunicano, insomma, è che l’omofobia è meno grave del razzismo o della discriminazione di genere, e quindi che essere omosessuali è, in fin dei conti (anche se non te lo dicono mai direttamente), una condizione d’inferiorità, che il problema, sotto sotto, è nostro e non di chi ci offende, ci nega diritti, ci picchia. “Forse l’omofobo sei tu, che ti senti ingiustamente attaccato”, mi dice infatti V. per coronare il suo discorso, dopo che il tono è salito di molti livelli ed è sul punto di trascendere. “Ma vai a cagare!”, le dico allora io, e me ne vado per i cazzi miei.
“L’aggressore aggredisce la sua vittima” è un po’ come dire che A più B fa C. Tuttavia, l’omofobia è talmente radicata nella nostra società, che persino una persona che ci conosce bene e con la quale abbiamo diviso momenti importanti della nostra vita, può uscirsene dicendo che, in quanto omosessuali, siamo eccessivamente sensibili, e che in realtà non vogliamo ammettere che A più B può anche fare D o E o F. Viene in mente la battuta sul razzista, applicata questa volta all’omofobia: “Non sono io che sono omofobo, sei tu che sei gay”. Più cerchi di spiegare loro in che errore logico sono caduti e che il problema si chiama omofobia interiorizzata, meno capiscono e più ti accusano. È il mondo alla rovescia.
Quando faccio ritorno a casa, accendo il computer e, ancora alterato per la recente discussione, compiendo un gesto quasi automatico, mi metto in chat. Dopo poco, mi scrive C.: “Ehi, bello, come va, cosa stai facendo?”. “Rodendomi il fegato, ragionando intorno a omofobia e relazioni umane. Robetta. E tu?”. “Niente di particolare, adesso volevo ascoltare un po’ la radio e poi schiacciare un pisolino. Se vuoi passare qui, più tardi...”. “Più tardi non posso. Se fosse per me sarei già lì. Mi va di stare tranquillo, chiacchierare con calma...”. “Allora vieni adesso”. “Sicuro? Così non ti lascio riposare...”. 
Tre quarti d’ora dopo sono a casa sua. Mi apre in maglietta e boxer. Subito dopo aver chiuso la porta, ancora nell’ingresso, ci abbracciamo a lungo, ci baciamo delicatamente, ci carezziamo. “Quanto tempo...”, mi dice C. mentre mi lecca, inconsapevole, le ferite. Passiamo in cucina per prendere qualcosa, ma ricominciamo subito ad abbracciarci. Sotto i boxer sento la sua erezione. Cerco un pretesto per distrarlo: “Ho portato delle albicocche, era l’unica cosa commestibile che avevo in casa”. “Ma dai, che gentile che sei” mi fa lui, complimentoso come sempre.
Prendiamo due bicchieri, un po’ di succo d’arancia, le sue sigarette, l’accendino, e ci sediamo sul divano. La radio, collegata allo schermo televisivo, è sintonizzata su un canale nazionale. Gli chiedo se può rollare una canna e lui: “Con gran piacere!”. Alle prime boccate già sento i muscoli rilassarsi, la mente distendersi. Appoggio la testa sul cuscino del divano e cominciamo a parlottare piano. 
Dopo qualche minuto mi propone di mettere un po’ di musica su Youtube. Con la tastiera del computer si sposta rapido nello schermo mentre una voce sintetica legge le varie linee sulle quali sta passando il cursore. Predilige i cantautori, ma adora anche la musica classica. “Perché non mi metti qualcosa che piace a te?”, mi chiede dopo un po’. “Perché mi vergogno tremendamente”. “È che a me piace condividere. Ognuno deve accettarsi per quello che è, no?”, mi lancia lui. E allora gli faccio ascoltare una canzone che anni fa mi provocava, ogni volta che la sentivo, una subitanea lacrimazione ed io sinceramente penso che non gli piaccia affatto. Qualcosa stona tra noi, immagino che si tratti di lunghezze d’onda diverse. “Suona qualcosa per me, ti va?”, gli chiedo. Allora si siede al piano ed esegue due movimenti di una sonata di Mozart. A parte alcuni punti della partitura in cui la memoria gli fa difetto, a me sembra che suoni molto bene e glielo dico. Mi lascio rapire dalla musica, mi distendo sul divano e chiudo gli occhi. Sto vedendo adesso le stesse cose che vede lui?
Poco dopo andiamo nel suo cortile, dove, con l’aiuto di un amico, ha sistemato l’orticello di pomodori, zucchine e melanzane. Per me quel posto è una specie di oasi in mezzo alla città, un posto dove respirare tranquillità. Bagniamo le piante e poi ci sediamo al grande tavolo, a fumare. Mi piace stare lì, ma me ne sto troppo a lungo in silenzio, sicché mi chiede di che cosa volevo parlare quando ci siamo scritti in chat. “Di niente”, rispondo, ma gli spiego brevemente quel che è successo, senza l’intenzione di voler approfondire l’argomento. Gli chiedo piuttosto di raccontarmi come è arrivato ad accettarsi come gay e lui mi spiega che la prima volta è stata pura casualità, che lui fino a quel momento era stato con ragazze. La nuova esperienza gli era piaciuta così tanto che il suo orientamento sessuale era emerso allora spontaneamente. “Invece, prima di stare con le ragazze, non ero niente, ero asessuale”, mi dice. “Sul serio?”, gli faccio io, incredulo.
Tra un silenzio e l’altro terminiamo le sigarette, e così, dato che devo andarmene, mi propone di accompagnarmi e comprarsele. Bastone bianco sotto braccio, quando siamo fuori mi prende a braccetto e cammina con passo deciso: “In mezzo, in mezzo alla strada!”, mi fa, “è più comodo che il marciapiede. No?”. Ed io penso, per l’ennesima volta, di cosa avrà mai paura questo ragazzo che in apparenza (solo in apparenza) è circondato dal buio. Quando arriviamo dal tabaccaio gli chiedo più volte se posso comprargli io un pacchetto, allora lui cede ma rilancia: “Va bene, però adesso andiamo a prenderci una birretta, e offro io”. E così in poco tempo arriviamo al bar della grande piazza vicino a casa sua. Il gestore ci saluta calorosamente e ci fa sedere. Inizio a sentirmi meglio, meno pensieroso e più allegro.
Allora squilla il cellulare: è R. Non rispondo ma, quasi senza accorgermene, getto uno sguardo all’orologio. Tra un po’ me ne vado.


***
Cerchi per caso il primo episodio di questa insensata trilogia? Di qua, prego.

venerdì 15 giugno 2012

Tre

Camicia a scacchi a maniche corte, pantaloni corti, infradito ai piedi. Capelli nero pece, corti, barba disegnata dalle basette alla mascella, al pizzetto. Occhi neri, sorriso sornione. L’ho pescato dalla solita chat ed è stata questione di qualche minuto, il tempo di scambiarsi un paio di foto e di complimenti, di capire che avevamo entrambi una buona dose di ormoni in circolo e che sarebbe stato quanto mai opportuno incontrarci nel più breve tempo possibile. Cioè un’ora dopo. A casa mia, perché vive in coppia e preferisce così. 
Ecco dunque piombare nel mio appartamentino uno di quei rari casi di maschio la cui immagine reale tradisce quella mostrata dalle foto, però al contrario: le aspettative si dimostrano, infatti, abbondantemente sottostimate. Si chiama G., è un pezzo d’uomo (entra e sorride, mi abbraccia e mi bacia subito, ha molta voglia), con il suo petto dolcemente villoso (in un attimo mi toglie la maglietta e comincia a mordere il collo, a carezzare il mio petto; io sbottono la sua camicia e passo la mano sul suo, sfioro i capezzoli e poi li bacio) e con il culo pieno, rotondo (si toglie le infradito, slaccia la cintura e i pantaloni cadono in terra). Mentre mi stringe a sé e io gli palpo il culo, percepisco chiaramente che è già decollato, pronto all’amplesso, al coito. Ma sarebbe più onesto chiamarla monta.
Io sto ancora sul chi vive, forse incredulo o forse catapultato troppo rapidamente nel vortice della sua smania. Tuttavia, un gesto finirà per convincermi in maniera definitiva e duratura: il torello non aspetta che io metta mano al prominente pacchetto che vedo spuntare fra le sue gambe, ma con una mossa rapida di pollici infilati nei bordi degli slip, si sfila anche l’ultimo indumento che rimaneva a coprire il suo corpo. È il punto di non ritorno. Perché? Perché ha un cazzo che sembra un fumetto disegnato da un pornografo raffinato e assai maiale: non molto lungo (saranno 16 o 17 centimetri, bisogna essere precisi in queste cose) però “spaventosamente” grosso, di un diametro uniforme dalla base alla punta, leggermente arcuato verso l’alto e una pelle morbida. A coronare il tutto, un paio di palle grosse, pesanti e non eccessivamente pendenti.
Mentre i segnali di eccitazione che il mio corpo invia si fanno ormai visibili e molto concreti, mi prende per mano e mi accompagna al mio sofà dove gentilmente mi fa sedere. Rimane in piedi accanto a me e sono frazioni di secondo finché io afferro deciso quel grosso manico e me lo ficco in bocca. Ciuccio, mugolo, sbocchino e lecco, sbavo e spompino uno dei cazzi che senza ombra di dubbio salverei da un ipotetico giudizio universale. Vista la posizione in cui mi trovo e il piacere che mostro nel compiere le operazioni di suzione, mi aspetto che da un momento all’altro mi sfondi la bocca a colpi di cazzo, premessa di altre gradevoli aperture. Invece no, mi toglie dalla bocca l’immane battacchio, con una mano mi spinge la testa un po’ più in basso mentre solleva il suo corpo di qualche centimetro. Ho i suoi coglioni contro il mio viso, due palle grandi, calde, morbide. Apro la bocca e lecco in mezzo ai coglioni, cercando di premere il più possibile la bocca contro di lui, poi succhio una palla, poi succhio l’altra e tiro verso di me. Lui si smanetta solo a tratti, ansima e inspira aria rumorosamente: credo che voglia dire “mi piace, continua”, sicché mi dedico al compito assegnatomi con piacere e devozione.
Adesso s’inumidisce di saliva un dito, si china verso di me e cerca il buco del culo. Mi sistemo meglio sul divano, allargando le gambe e offrendogli tutta la mia disponibilità. Come per magia, il suo cazzo torna a visitare la mia bocca e siccome adesso le dita sono diventate due e sono anche state lubrificate con apposito prodotto, io comincio a godere in maniera piuttosto rumorosa. Eccolo il torello che mi domina: in quel mio lasciarmi fare, in quel mio vibrare al ritmo delle sua dita, in quel perdere sfacciatamente il controllo, c’è tutto il mio piacere. E nel mio cervello il desiderio martellante e imperativo di avere quel cazzo nel culo il più presto possibile.
Non c’è bisogno di pregarlo. G. mi fa mettere a pancia in su con le gambe ben larghe e le ginocchia flesse verso il mio petto, il buco del culo esposto e disponibile. Sa come far crescere la mia voglia fino a farmi scoppiare la testa, fino a non poterne più: s’impugna il cazzo e lo sbatte contro il solco del mio culo una, due, decine di volte. Tam-tam-tam-tam-tam! E intanto osserva il mio buco che, lo sento chiaramente, reagisce dilatandosi. Prende il preservativo che lui stesso ha portato e ha appoggiato poco fa sul tavolino, e se lo srotola, mentre io mi lubrifico il culo e passo qualche goccia di gel anche sul suo uccello. Sempre osservando attentamente le parti dei nostri corpi maggiormente interessate dall’operazione, G. punta il cazzo contro il buco e lo fa scivolare dentro. Gemo perché lo sento grosso e mi fa un po’ male. Questo probabilmente lo eccita ancora di più, e lo capisco dai corti movimenti avanti e indietro con i quali cerca di entrare più in fondo. Dopo un po’ metto una mano alla base del suo cazzo e constato che è entrato quasi tutto, eppure continuo a sentire fastidio. Siccome capisco che non resisterà a lungo senza sfondarmi per bene, cioè senza penetrarmi con tutto il cazzo e senza darmi colpi più violenti e profondi, preferisco levarglielo e cambiare posizione. Lo intuisce immediatamente, giacché si alza e si mette in piedi vicino al divano. Io mi sistemo in ginocchio, a pecorina, e inarco la schiena per sporgere il culo più che posso. Lui allora si mette in ginocchio dietro di me, mi afferra per i fianchi e, con un unico colpo secco, è dentro fino in fondo.
Ansimo e con un “sì, così”, gli faccio capire che adesso siamo sulla strada giusta. Anch’io decollo per un viaggio dei più gradevoli. Mi apre proprio bene, sbattendomi forte e senza emettere nessun suono se non una respirazione accelerata. A un certo punto giro la testa per vedere dietro di me: lo specchio appoggiato alla parete vicino al divano, riflette l’immagine del suo culo che sovrasta il mio e dei coglioni che mi sbattono contro. Vederci così, in quella posizione tanto animale e da quel particolare punto di vista, provoca in me quasi un delirio o una sensazione di vertigine nella quale mi perdo. Sicché la sua mano che scende a cercare il mio cazzo, lo impugna e comincia a tirare sulla pelle, è delle più inopportune: “No!”, quasi gli grido, “fermo, altrimenti vengo”. “Ti piace?” mi chiede quindi. “Un casino”, è la franca risposta.
Allora lo sfila e mi fa mettere ancora a quattro zampe, però questa volta, anziché parallelo rispetto alla lunghezza del divano, vuole che stia con le ginocchia sul bordo. In questo modo lui può stare in piedi dietro di me e osservare anche lui lo specchio che ci restituisce ora l’immagine dei nostri corpi di profilo, incastrati e gaudenti. Adesso sta compiendo movimenti molto ampi: la penetrazione è profonda e quando torna indietro, quasi ritira completamente il cazzo dal mio culo, lasciando dentro solo la punta. Poi ricomincia una monta selvaggia, fatta di colpi più forti, più secchi. A un certo punto alza la gamba sinistra, piega il ginocchio, appoggia il piede sul divano ed entra ancora più in fondo. Mette le mani sulle mie spalle, come se volesse entrare dentro di me con tutto sé stesso. 
Sento di non poter più reggere tanto piacere, con una mano inizio a sfiorarmi il cazzo e ansimando gli comunico, in tutta sincerità: “Sto per venire”. “Sborra, sborra!”, mi dice. E in pochi secondi scarico tutto sul divano, mentre lui continua la sua corsa sempre più veloce. Quasi immediatamente dopo mi dice “Vengo” e termina dentro di me.
Quello che ha tutta l’aria di essere stato un altro fantastico rappresentante del sesso espresso se ne va qualche minuto dopo essersi lavato sommariamente e rivestito, con un bel sorriso e - anche lui - con un “buona fortuna!”. Altri amori ci aspettano.

lunedì 11 giugno 2012

Sesso espresso

Tra sabato notte e domenica dormo solo tre ore. Il caldo? Troppi pensieri per la testa? La tristezza è insonne.
Fatto sta che mi sveglio verso le nove e mezza e la prima cosa che faccio è accendere l’applicazione del telefonino. Quella con i maschietti alla ricerca del benessere perduto. Carne incasellata. Pochi volti, busti, culi, bicipiti (pare che i cazzi in “copertina” siano vietati). Obiettivo individuato: 40 anni, 175 cm, 74 kg, bianco, barba di due giorni, capelli neri, nome suggestivo che in italiano potrebbe suonare così: “Tuttodentro”. Commento: “Fumo, bevo ed esco con donne”.
“Ciao, come va?”, inizio io.
“Ciao, bene e tu? Cerchi cazzo?”. Le possibilità di trombare schizzano improvvisamente  in alto, come lo spread.
“Bene, mi sto svegliando piano piano. Quello sempre!”.
“Ahahah, meglio così. Io ne ho uno”.
Segue foto, suggestiva anch’essa. Gli mando una mia.
“Cazzo, che bello!”, mi scrive.
“Grazie, il tuo cazzo mi eccita un sacco. Quanto misura?”.
“18, tutto tuo”.
“Fai sesso sicuro?”
“Sì, a parte con le persone con cui sto in coppia, ovviamente”.
“Coppie? Ne hai più di una contemporaneamente?”.
“Ahahah, no bello! Adesso neanche uno”.
“È vero che stai con donne, cioè sei bi?”.
“No, è uno scherzo. Sono frocio, però non effeminato. Dove abita questo culetto?”.
È questione di minuti, viviamo vicini. E così mi alzo, faccio colazione, la doccia, metto un po’ a posto casa e si presenta il Marcantonio: pantaloni corti, canottiera bianca, scarpe da ginnastica e occhiali da vista con montatura nera. Un bicchiere d’acqua e via, partiamo per il nostro viaggio. 
Ma guarda un po’ come mi bacia e quanta voglia ha in corpo questo qui. Mi tocca, mi abbraccia, mi bacia e mi ribacia. Siamo ancora in piedi eppure stiamo già ansimando. Iniziamo a toglierci i pochi vestiti che abbiamo addosso quasi che i nostri corpi stiano bruciando. Torniamo ad abbracciarci più volte e a leccarci il collo, a mordercelo vicendevolmente tra un pezzo e l’altro del nostro abbigliamento che vola per aria e plana sul pavimento.
Cazzo contro cazzo, ce l’abbiamo duro entrambi e io non resisto: tocco il suo, faccio scivolare la pelle per scoprire la cappella, accarezzo i coglioni belli grossi, pendenti. È già troppo, è insopportabile.
“Dov’è la camera?”, mi chiede.
“Sopra, vuoi che andiamo?”.
Ma già afferro la busta con gli strumenti che devono accompagnare il nostro piacere, il tubetto di lubrificante e i preservativi e salgo la scaletta. “Fermati lì!”, mi intima O. che adesso ha la testa all’altezza del mio culo. L’avvicina al buco e lo lecca, più e più volte. Non ci vedo più. Perché non mi prende ora, mettendolo dentro in una mossa? Saliamo di sopra, gli uccelli duri che oscillano tra le nostre gambe. Appena arrivati mi inginocchio e comincio a succhiargli la nerchia, senza smettere mai di carezzargli le palle. Un gesto che mi aspettavo e che puntualmente arriva: due mani sulla mia testa, inizia a scoparmi la bocca. Senza violenza, ma con decisione. “Mmmmh”, è il suono del mio piacere che emetto mentre lui guarda come entra ed esce il suo cazzo dalla mia bocca e sospira ripetutamente dei “Sì, sì”.
Poi me la toglie di colpo, si getta sul letto stendendosi a pancia in su e “Vieni qui”, mi dice. Mi stendo sopra di lui, mi abbraccia e mi bacia di nuovo, a lungo. “Come ti chiami?”, mi chiede. “Milk, e tu?”. “O.”. 
Scendo a succhiargli e a mordergli i capezzoli, poi vado ancora più giù. Gli meno il cazzo mentre lecco e poi succhio prima un coglione e poi l’altro. Poi ricomincio il pompino, finché mi ferma e mi chiede di passargli un preservativo. 
Dopo averlo indossato e averci messo un po’ di lubrificante, lo impugna, mi guarda e sorridendo mi fa la richiesta più bella del mondo: “Siediti qui”. Mi metto a cavalcioni sopra di lui, guardandolo, porto una mano dietro, impugno il suo cazzo e lo dirigo verso il mio buco. Sono così eccitato che in un attimo il mio culo se lo inghiotte fino in fondo ed io comincio ad andare su e giù. Mi piace sentire quel palo che mi sfonda dietro e dal modo in cui ansimo e dalla sua faccia, a entrambi quel godimento deve sembrare reciproco. 
Ad un certo punto inarca le gambe e comincia ad andare su e giù con il bacino. Io allora fermo i miei movimenti e lascio che imprima liberamente il ritmo della penetrazione. Non smette di guardarmi un attimo mentre sento il suo cazzo andare avanti e indietro nel mio culo.
Dopo un po’, mi chiede di distendermi a pancia in su. “Solleva le gambe, ecco, così...”, mi dice mentre s’impugna l’attrezzo e me lo ficca dentro. Mi lavora il culo per bene, dando dei colpi decisi e continui, ma sempre fissandomi negli occhi. A un certo punto, però, nota l’effetto che mi sta provocando: del liquido bianco esce dalla mia cappella lentamente. Solo qualche goccia, ma è sufficiente a fargli chiedere: “Vuoi venire? A me manca poco...”. “Va bene”, gli rispondo, e allora prende a massaggiarmi il cazzo con il palmo di una mano senza smettere di penetrarmi, poi lo impugna e comincia a masturbarlo senza foga. Dopo poco, in una pioggia di ansimi e di grida, sborro sulla sua mano e sulla mia pancia. 
A quel punto O. lascia la presa sul mio cazzo, punta le braccia sul letto e comincia a sbattermi forte, colpo dopo colpo, aprendomi ancor di più il culo. Di lì a poco viene con tre o quattro movimenti di bacino secchi e profondi. Grida il suo piacere e adesso non mi guarda.
“Siamo durati pochissimo, no?”.
“Già, dev’essere perché avevamo tutti e due troppa voglia”.
“Questo è sicuro”.
“Beh, buona fortuna”.
“Anche a te”.
Sesso espresso. Rapido ed efficace, come bere un caffè.

sabato 9 giugno 2012

Ma quanto siete perversi?

Questo post del blog Eros su El País di qualche giorno fa mi sembra stimolante, perciò lo traduco e lo riporto qui. E voi che ne pensate?

Come tanti altri figli della sinistra degli anni Settanta, ho avuto la fortuna di crescere in una casa progressista, piena d’informazioni sul sesso per i piccoli. Però, più che nell’onda hippy, mi piace pensare che l’origine di tanto progressismo si trova senza dubbio nella mia famiglia materna, nel suo atteggiamento aperto e spregiudicato nei confronti del sesso.
Mio nonno - sessualmente attivo a ottanta e più anni, per la disperazione di mia nonna - ripete da decenni una massima che non ha imparato né a scuola né con i predicatori della sessualità positiva di San Francesco, bensì grazie alla saggezza popolare basata sul rispetto della differenza: “Ognuno fa del suo culo un vaso di fiori e ci mette il fiore che gli piace di più”.
Ogni volta che penso alle perversioni, mi ricordo della massima di mio nonno e mi rallegro del coraggio di alcune persone, capaci di essere coerenti con i propri desideri, per strani che possano sembrarci: quelli che cercano informazioni per apprendere e per incontrare i propri simili, quelli che un bel giorno si decidono a parlarne senza paura e trattano sulle proprie fantasie alla ricerca del consenso, quelli che non si fermano finché non sono sé stessi.
La perversione è un concetto-ombrello sotto il quale si raggruppano tutti i comportamenti sessuali umani che non aderiscono alla norma sessuale di una data epoca - istinti sessuali eccessivi, ridotti o deviati - e che si cominciò a utilizzare in psicologia per descrivere l’omosessualità e altri “disturbi” dell’istinto sessuale come il sadismo, il masochismo o il feticismo. Se volete approfondire la storia di questa idea, vi consiglio il brillante saggio del filosofo Arnold Davidson, L'emergenza della sessualità. Epistemologia storica e formazione dei concetti (Quodlibet, Macerata, 2010). Astenersi allergici a Michel Foucault.
Nella nostra epoca, sarebbe politicamente corretto chiamarle “parafilie”, termine che viene dal greco παρά (oltre, al margine di) e φιλία (amore), e definirle come fantasie, impellenze o comportamenti tra persone adulte, fisicamente sane e consenzienti, marcate da un interesse sessuale potente e persistente per attività che non sono la copula né i preliminari, ma spesso oggetti, attività o situazioni inusuali. Il concetto è ancor più ampio e segnala le possibili conseguenze negative di questi comportamenti, ma siccome siamo a favore della cancellazione delle parafilie dalla lista dei disturbi mentali, vi risparmiamo il resto.
Se partiamo dalla semplice descrizione del fenomeno, non è necessario assumere un atteggiamento eccessivamente confessionale per affermare con onestà che tutti siamo un poco aberranti, deviati, insomma, pervertiti. Lei, preferisce vedere sua moglie in collant, giarrettiera e reggiseno invece che nuda? Perverso! A lei piace succhiare le dita dei piedi del suo fidanzato? Perversa! Vi piace da matti mordere o essere morsi? Perversi! Non c’è niente che vi ecciti di più che essere trattati come un bambino o una bambina che si sono comportati male? Vi piace masturbarvi con scarpe da ginnastica usate? Le piace essere utilizzato come tavolo per il salotto? Perversi, perversi, perversi!
 
Solo quelli che limitano la propria vita sessuale alla routine di un bacio e tre carezze come prologo all’apoteosi del “missionario”, possono dormire tranquilli e annoiati con il loro specchiato esercizio e la loro difesa della normalità e rivolgere a noi, altri mortali, un’occhiataccia... di pura invidia, suppongo.
 
È così divertente essere un pervertito che, da molto tempo, nella lingua anglosassone - una cultura che sicuramente ha molto da insegnarci in materia di perversioni - l’abbreviazione “pervy” si utilizza comunemente nella grande famiglia dei pervertiti come un termine positivo che riafferma e difende la singolarità della sua natura. In inglese, essere “kinky” è un complimento. 

Il fatto è che ci sono perversioni “alla vaniglia” ed altre, diciamo, più pittoresche. E la reazione di ognuno davanti a una determinata perversione è assolutamente soggettiva. Io, per esempio, non potrei mai stabilire una relazione con una persona che fosse feticista dei piedi, perché mi dà fastidio che me li tocchino e la sola idea di qualcuno che me li succhi mi fa rizzare i capelli. Tuttavia, quando relativamente pochi anni fa scoprii di avere un accentuato feticismo per gli indumenti intimi femminili, sconosciuto fino ad allora, mi lanciai a capofitto, stupita e felice, a coltivare il mio nuovo tesoro.

Cos’abbiamo in comune un esaltato delle statue, dei manichini e dell’immobilità in generale (agalmatofilia) ed io con il mio gusto per gli indumenti intimi femminili? Beh, tutto: ognuno nutre il suo feticcio senza recare danni al prossimo, abbelliti del fiore che più ci piace.

Per me che sono gay la questione è superata ormai da anni: ogni giorno, non passa un solo minuto senza che qualcuno o qualcosa mi ricordi quanto sono pervertito. Perché è evidente che se la norma sessuale sono, come afferma l’autrice del post che avete appena letto, un bacio, tre carezze e poi il missionario (come stereotipo di rapporto eterosessuale), io mi trovo non dico agli antipodi, ma certamente molto lontano da lì. E sono incuriosito (pur senza averle mai provate) da alcune pratiche sadomaso leggere (perché credo che in me il confine tra piacere e dolore sia, a volte, molto sottile) e dalla relazione dominante/sottomesso.
E voi? Che rapporto avete con ciò che solitamente chiamiamo perversioni? Avete qualche fantasia, soddisfatta o no, che non rientra precisamente nella norma che qualcuno ha previamente stabilito per voi?

lunedì 4 giugno 2012

Le parole, ad esempio

"Con un uomo che mi parlasse di pisellini e patatine potrei al massimo andarci a cena", dice Estrella Marina. Io neanche quello, figurati un po'. Contro il logorìo del sesso benpensante e benpensato, andate a leggerla. E beccatevi questo:
Er cazzo se po di' radica, ucello,
Cicio, nerbo, tortore, pennarolo,
Pezzo-de-carne, manico, cetrolo,
Asperge, cucuzzola e stennarello.

Cavicchio, canaletto e chiavistello,
Er gionco, er guercio, er mio, nerchia, pirolo,
Attaccapanni, moccolo, bruggnolo,
Inguilla, torciorello e manganello.

Zeppa e batocco, cavola e tturaccio,
E maritozzo, e cannella, e ppipino,
E ssalame, e ssarciccia, e ssanguinaccio.

Poi scafa, canocchiale, arma, bambino.
Poi torzo, crescimmano, catenaccio,
Minnola, e mi'-fratello-piccinino.

E tte lascio perzino,
Ch'er mi' dottore lo chiama cotale,
Fallo, asta, verga e membro naturale.

Quer vecchio de spezziale
Dice Priapo; e la su' moje pene,
Segno per dio che nun je torna bene.

(Giuseppe Gioachino Belli, Er padre de li santi)