mercoledì 29 febbraio 2012

Bivio

Erano all’incirca le otto e venti di questa sera e la storia si trovava a un bivio. I due protagonisti non lo sapevano, ma dopo aver scelto la strada, almeno per uno di loro le prospettive sarebbero cambiate drasticamente. Uscirne salvi anche se malconci o perdersi per sempre. Uno o due. A o B. Svolta o linea retta. [“Gli interlocutori ce li scegliamo noi, inutile ingannarsi”. Profetica Rob.].
Il pomeriggio era trascorso esattamente come doveva. Era bastata una serie di rapidi messaggi via Whatsapp, come sempre. Li avevo inviati all’ora di pranzo ed ero stato convocato per le sei a casa sua. As usual. Così, terminato presto il lavoro, me n’ero andato a casa a fare una doccia e a prepararmi per l’incontro.
Non ho potuto fare a meno di quell’abbraccio. Era avvolgente, caldo, sensuale. È stato dolce e ha avuto il potere di sciogliermi ancora una volta. Abbiamo scherzato molto oggi, io mi sono rilassato in fretta, abbiamo preso qualcosa da bere, abbiamo riso e ci siamo abbracciati di nuovo, baciati e poi carezzati, baciati e riabbracciati, riaccarezzati... Ma io non dovevo chiarire alcune cose? O almeno comunicarle? Dire finalmente in modo esplicito quello che io sentivo per lui?
Ma che importava allora. Ancora una volta mi ha preso per mano, pochi passi verso la sua camera da letto e poi il sesso. La scopata. Io a pancia in su e le gambe piegate verso il petto, i polpacci appoggiati alle sue spalle. I colpi del suo cazzo e i baci. La mia mano che sfiora il suo buco e le palle. I suoi capezzoli duri e la supplica - di nuovo, la stessa - “piano, piano, fallo piano”. Ed io no, proprio il contrario: chiavami più forte che puoi, lasciati andare a quel che cazzo vuoi, spingi più in fondo, fammi credere anche solo per un po’ che resterai per sempre lì, conficcato nella mia carne e che non te ne uscirai più.
E poi l’orgasmo a pecorina, certo, in una sintonia che era sinfonia, armonia, melodia tutta nostra. L’orrore del rivestirsi, così in fretta (perché poi? Perché era tardi? O voleva tagliare corto?). Si avvicinava l’ora. Aveva voglia di uscire e si è proposto di accompagnarmi per un pezzo. Doveva finire a prendere qualcosa in un bar del quartiere gay (da solo, ma si sa che Whatsapp funziona meravigliosamente bene). Instancabile R. “Ma non voglio sesso, eh”. Ci mancherebbe, scherzo io.
Siamo giunti allora nella grande piazza, il centro di questa città, il centro di una nazione intera ma per me, oggi, il centro dell’universo. Potevamo separarci semplicemente e seguire ognuno la propria strada. Le luci della sera, l’andirivieni di centinaia di persone, gli autobus e i taxi, qualche gruppetto di turisti e gli ultimi avventori dei grandi magazzini: scena e comparse del nostro imminente saluto. Invece, tutto si ferma durante un istante solo: “Senti, perché non ci prendiamo qualcosa insieme, adesso?”. È lo schiudersi di un’altra possibilità. “Non fare lo stupido” - e si spalanca il suo sorriso - “sai che devi andare”. “Però a me va di prendere qualcosa con te adesso. A te?”, insisto. “Va bene, allora ti faccio conoscere un posto che è tipico della mia regione”. E nella sua regione si beve, fortunatamente, molto bene. E si mangia, pure.
Gli ho proposto una seconda bottiglia. Quella che mi serviva per ascoltare, soprattutto, e per dire poco, come al solito. Però le lacrime hanno raccontato molto: “Ti senti immedesimato?”, mi ha chiesto. Calde e vere. Le sue parole si riverberavano nei miei pensieri ed era come sentir pronunciare ciò che non avevo mai osato dire. Come assistere al film di ciò che inevitabilmente, di qui a poco, mi accadrà. Perché nella sua crudelissima storia di negazione di sé per ciò che convenzionalmente si chiama “amore” per un’altra persona, ho visto inequivocabilmente il mio stesso annichilimento: lento e lunghissimo, ma inesorabile, intenso ed orribile. 
Dopo questa notte, non c’è più spazio per l’autoinganno: la mia coppia, se non è finita oggi (o persino ieri), finirà domani. Ed ecco il vero bivio. Ecco la scelta: essere persona o, come efficacemente diceva R., “vegetare”.
Non ho sentito finora parole più lucide di quelle udite qualche ora fa. Non sono stato capace di un pensiero su di me (e sul mio compagno) più netto, più spietato di quello espresso da R. mentre si riferiva alla sua vicenda. Per questo, grazie R., grazie infinite, davvero. La prima batosta è stata sapere che tu ora solo cerchi divertimento, che per il momento stai bene così. E dunque che io non sono altro che uno in più. E neanche il più importante. La seconda è stata sentire raccontare la tua storia con la crudezza, la freddezza e la consapevolezza che avrei voluto avere io, già molto tempo fa. Quella storia era la mia.
Adesso o si prende il coraggio a due mani, o non si è. Mi resta un’infinita tristezza. Una melanconia immensa. E io ti ringrazio, R.

domenica 26 febbraio 2012

Sono dove non si vede

Ha dato tutto quello che poteva. Ha perso tutto quello che amava. Ha tentato di tirarlo fuori dal pozzo, dove giaceva senza dire una parola, ma il ragazzo ha trovato improvvisamente una via d’uscita e dal fondo è riemerso in un altrove non previsto. Così lui è rimasto solo al bordo del pozzo a gridare verso il buio e il vuoto. Per un po’. Ora se n’è allontanato e ha smesso di piangere. Ma non chiede. Dice, ma non ascolta. Racconta, ma non si lascia raccontare. Vive, per sé stesso. Non vuole attraversarmi. Mi penetra, ma non si ferma dentro. E io sono in un altrove, invisibile.

Sentimento di vivo affetto verso una persona.

“Sei libero adesso?”
“Sí”.
“Sono a casa. Non mi sentivo bene e il capo mi ha accompagnato in macchina”.
“Cazzo. Passo?”.
“Sí”.
“Vuoi che ti porti qualcosa? Qualsiasi cosa...”.
“Una bibita per sportivi, Gatorade o qualcosa di simile”.
“Va bene. Dammi giusto il tempo di arrivare”.
“Ok”

Affetto intenso, assiduo, fortemente radicato per qualcuno.

Entro sorridente cercando di trascinarmi dietro, a parte la borsa, un po’ di sole. Mi abbracci (istintivamente), ti bacio il collo, che è la prima cosa che mi piace fare. Frasi spezzate da baci. Lì in piedi, nell’andito. Allora, che succede? Non preoccuparti, sono qua io.
Il divano è la nostra tana. Oggi che sei distrutto, che stai male, che ti lamenti e non riesci ad articolare un pensiero che sia uno, sono qui. Mi siedo al tuo fianco, poi siamo distesi, poi ci accarezziamo e un milione di volte ci tocchiamo. Come sei bello e dolce e indifeso oggi. 
“Devi andare in bagno” - mi chiedi - “o una roba del genere?”. Una roba del genere?
“Ehm... no. No, no”.
“Beh, io sì”. Rido, e tu ridi.

Inclinazione forte ed esclusiva per una persona, fondata sull’istinto sessuale, che si manifesta come desiderio fisico e piacere dell’unione affettiva.

Nel bel mezzo del documentario supertrash, ti addormenti e allora io ti osservo. Esploro il tuo viso, ne percorro i tratti così dolci e gentili e medito di sbranarti seduta stante. Se questo sguardo riuscissi ad averlo mentre sei sveglio... ti ritrarresti? Mi respingeresti cortesemente? Mi sorrideresti? Capiresti? Diresti qualcosa? Direi qualcosa?
Arriva l’ora di pranzo. “Avevo pensato di uscire a prendere qualcosa con te ma...”.
“Che problema c’è? Cucino io, dài, non preoccuparti”.
“È che non ho niente in casa, non mangio mai qui”. Vero, mai visto una dispensa tanto spartana. Le poche cose che contiene, scadute da una media di due anni, finiscono direttamente nella pattumiera. Non hai nemmeno la forza di riderci su. Esco rapidamente e compro qualcosa di commestibile. Torno a casa tua, presidiata peggio di una fortezza da un mastino chiamato portinaio, e ti cucino la pappetta.
“Grazie”.
“Assaggialo, prima di ringraziarmi!”.
Spargo ulteriori tracce per restare dove vivi tu.
“Dovrai ammalarti presto un’altra volta: questo scade in luglio”, ti avverto. 
Un pacchetto di riso, del brodo in dadi, tre bottiglie di una bibita giallastra imbevibile, un cd, un dvd,... Si confonderanno agli oggetti che il tuo ex non ha voluto portarsi via? Inutilizzati, però anche inutili, perché svuotati volontariamente, scientemente, dell’essenza di chi li aveva portati lì. “Ricordati di me”: solo un tratto di penna su un foglio. Già stracciato?
[È già successo. È già successo. Molti anni fa. Sul tavolo dell’ufficio di M. la mia lettera per lui. Aperta, sbracata, abbandonata. Sputtanata, svillaneggiata o declamata solamente? Così vile era lo scrivente? O il lettore?]

Sentimento di affetto intenso basato sull’attrazione sessuale e sul desiderio di unione affettiva.

“Che giorno assurdo per star male, no? Con tutto questo sole!”.
“Sì” - mi rispondi - “è tornata la primavera”.
“Figurati, ci sta solo prendendo in giro. Ce lo fa credere soltanto”.
L’ambulatorio non è esattamente dietro l’angolo. Viale alberato, traffico, notevole concentrazione di ristoranti a poco prezzo. Sei serio adesso. Parli poco e io taccio. Poco dopo stiamo già tornando indietro. Un film di Terry Gilliam? Quanto tempo... va bene, mettilo su. E ci addormentiamo come bambini dopo la merenda. Mi sveglia la tua mano che mi accarezza la testa. Mi avrai osservato anche tu? 
Va bene, andiamo a letto. Stai male e siamo stanchi entrambi. Ma io ho di nuovo voglia di morderti. Nel buio della camera tu sembri sparire e si presenta il mio pensiero, come quando ero bambino. Il mio spazio è dove non si vede.
“Non vieni sotto le coperte con me?”.
Ho paura. Io ho paura. Persino più di te. Fuori di qui mi aspetta la tempesta, se quello che sento è vero. Non sembri accorgertene o fingi. Vorrei gridare, farti star bene e parlare per ore. Invece mi addormento abbracciandoti.
“Devo andare, è troppo tardi. Più tardi se vuoi torno”.
“No, non è necessario”.
“A volte ci piace fare cose non necessarie. Mandami un messaggio, va bene?”

Sentimento intenso dell’essere umano che, a partire dalla propria insufficienza, ha bisogno dell’incontro e dell’unione con un altro essere, e lo cerca.

“Vuoi che ti porti qualcosa?”.
“Sono già a letto e sto per dormire. Grazie per il tuo aiuto!”.
“Tu lo faresti per me?”.
“Ovvio. Domani ti dico come sto”.

Sentimento verso un’altra persona che naturalmente ci attrae e che, offrendo reciprocità nel sentimento di unione, ci completa, ci rallegra e ci dà energia per convivere, comunicare e creare.

E così il giorno dopo ti rivedo, torniamo dal medico e poi ci prendiamo un tè in un bar. Stai meglio, sei ridiventato allegro. Davanti a quelle tazze mi sembra che parliamo di cose importanti. No, mi sembra di condividere qualcosa di importante. Per la prima volta.
Torniamo a casa per terminare di vedere il film. Alla fine devo scappare.
“Ci vediamo”, mi dici sull’uscio. 
Vorrei strozzarti.

martedì 21 febbraio 2012

La colpa è mia

V.

Il giorno non durerà ancora a lungo, di questo pomeriggio ne resta solo un po’. Questo agosto volge al termine, penso, già vedo le giornate farsi più corte, mesto annuncio del mio prossimo ritorno alla popolosa città. Lì cercherò ancora, forse con un po’ di stanchezza, un mio scampolo d’estate. 
Di sesso. È che qui oggi, a parte una toccatina fugace al simpatico pisello tutto glande e niente cervello di un tizio per il resto repellente ed appiccicoso, non è che abbia rimediato granché. A parte i bagni di luce e d’acqua. Preziosi, certo.
Il mare è calmo ed è lontano. Le dune qui sono imponenti e si spingono via dalla costa, strisciando verso l’entroterra. Lì si popolano di ginepri grandi come alberi e di una macchia mediterranea a tratti molto fitta. Sì, questo è il Mediterraneo, non c’è dubbio, com’è vero che io sono nudo, disteso sul telo da bagno vicino al mio ragazzo, nudo anche lui, la pelle ormai abbronzata che riflette i raggi del sole sempre più tenui. Come sono vere le due torri diroccate agli estremi di questa baia, che da secoli aspettano vascelli che non sono mai giunti. Ed è indubbiamente reale anche quel ragazzo che adesso avanza verso di noi, scalando la collina di sabbia. Gli ultimi passi sono incerti, arranca malamente dove la pendenza si fa più forte, poi getta il suo zainetto a qualche metro da noi, solo un po’ più in alto. Si spoglia completamente.
Siamo sulla duna più alta ma lui è nella posizione privilegiata: domina, come le torri, una vista a trecentosessanta gradi. Eppure non ci osserva. Apparentemente. Non è lì “per quello”, sembra comunicare. Già, certo, come no.
“Non è una vecchia conoscenza, questo?”, chiedo sottovoce al mio ragazzo.
“Sì, è quello che mi sono fatto l’anno scorso qui sotto. Che poi, fatto... una seghetta”.
Ora ricordo meglio: questa faccia di Cristo versione non sofferente ma gaudente, abbastanza piena anche se scolpita dalla barba e incorniciata dai capelli castani, lisci e lunghi fino alle spalle, girava come un dannato alla ricerca di non si sa cosa. Perché non si fermava mai, nemmeno per contemplare le gustose scenette messe in piedi da quell’assortimento di uomini affamati di cazzi, di mani, di occhi, di palle, di culi. E così il mio ragazzo l’ha adescato con semplicità, chiedendogli qualche dato anagrafico condito dalle preferenze in fatto di sesso, quelle generali e quelle contingenti. Timidezza o ritrosia che fosse, tutto terminò, ora ricordo, sì, con un mano a mano. Questo mi disse, visto che non partecipai, né vidi il quadretto.
Un anno mi sembra più che sufficiente per aspettare la rivincita. È il mio turno. Zip dello zainetto aperta, afferro una bustina con un preservativo e un’altra di lubrificante. Mentre mi alzo e gli sfilo quasi a fianco dimenando il culo un po’ più del solito e sentendomi davvero libero oltre che molto eccitato, predispongo il mio animo a quello che verrà o meglio che deve accadere, l’incontro. È che il tipo - non avrei mai pensato di rivederlo - mi attrae sul serio: non è molto alto, anzi, è un po’ tarchiato, ma a parte quella faccia da Messia di provincia, nutrito probabilmente a prosciutti e salsicce, di lui mi piacciono molto le gambe, forti e tornite e quei coglioni così grossi, penzolanti e morbidi, sui quali ho messo gli occhi più o meno trecentosessantacinque giorni fa. Ha pochi peli, chiari. Concludo che è un bel manzo e che, se ha la stessa fame che ho io in questo momento, non tarderà.
Infatti mi apposto in una radura che si trova sulla sinistra del cammino che parte dalla sommità della duna e da lì lo vedo scendere a sua volta, un po’ guardingo. Quando si accorge che lo sto osservando, distoglie rapidamente lo sguardo, accelera il passo e gira nella radura antistante. Lo seguo, però lentamente, per non dare l’impressione di volergli stare addosso: lo marco a vista, ma con discrezione. Lo perdo per un attimo, poi lo vedo fermo tra i cespugli. Dal cazzo molle esce un fiotto giallognolo. Sta pisciando. Finita l’operazione mi passa a fianco, io rimango fermo. Si allontana rapidamente. Vuol forse farmi credere che è venuto qui solo per pisciare?
Iniziamo così un estenuante nascondino, giocato a corpi nudi, aggirandoci come animali nel bosco e fiutandoci a vicenda: lui se ne va oltre la collina, io lo seguo; torna a stendersi sul suo telo da bagno, io resto nella boscaglia; si muove in avanti, lo precedo; retrocede, lo mando a cagare. Sto quasi per desistere, uscire dalla radura dove sono tornato a infilarmi e proseguire oltre, verso una coppietta che sta prendendo il sole più lontano e che non sembra esser lì “per quello” anche se non si sa mai, quando giro un po’ la testa e... lo vedo a qualche metro da me. Fermo, piantato in mezzo allo spiazzo, le gambe leggermente divaricate, lo sguardo perso in un punto indefinito davanti a lui. La posa è quasi statuaria, soprattutto grazie all’immobilità, all’indifferenza. “Questo crede di non essere gay”, penso. Possibile? Eppure di anni ne avrà sui trenta, non quindici. Il cazzo mi segnala, con spontaneo turgore, che non è il momento di pensare ai problemi esistenziali altrui. Comincio a menarmelo e intanto faccio due passi, poi altri due, poi altri due. Mi avvicino lentamente e vedo che anche il suo uccello è diventato duro e che lui mi osserva, anche se di tanto in tanto volge lo sguardo verso l’entrata della radura, non sia mai che qualcuno lo veda.
Gli sorrido, mi sorride. Ha una voglia tremenda, ma non si tocca. Non parla. “Ciao”, provo. “Ciao”, mi risponde. Ora lo posso sfiorare. La mia mano è già sul suo cazzo per far scivolare su e giù la pelle sulla cappella più rossa che io abbia mai visto. Ha una bella mazza ben proporzionata e i peli sono accorciati. Su e giù, su e giù con la mano. Lo vedo sorridere, ma non riesco a non fissare i suoi coglioni, che a ogni movimento della mia mano vanno avanti e indietro. L’altra mano adesso posa in terra le bustine fin lì custodite e accarezza le palle, le stringe e le tira verso il basso, poi le rilascia e torna a comprimerle. M’inginocchio e assaggio, prima con la lingua poi con le labbra schiuse, quei coglioni lisci. Odore di sesso. M’inebrio. Lo guardo, mi guarda. Gli piace. Il suo cazzo che batte sul mio viso mentre lo lavoro con la bocca più sotto. Gli piace. Risalgo rapido con la lingua lungo l’asta, mi aiuto con la mano destra e me lo ficco in bocca. Spompino e mugolo, mugolo e sbocchino. Di lui non percepisco alcun suono, solo intuisco che ora ansima più forte.
Ha visto la gomma e il gel? Ha capito che sono lì proprio per quello? Non farà niente che io non voglia, questo attivo inattivo, questo non gay, forse bisessuale o forse eterosessuale per tutti ma non per me, qui, in questo momento. Potrei passare la vita intera a succhiargli la minchia senza vedere una goccia della sua sborra, perché lui non farà niente che io non voglia: la colpa deve essere mia. Se si fa spompinare da un ragazzo, è perché il ragazzo ha voglia, non perché lui lo desidera.
Allora fuori la nerchia dalla mia bocca. Mi alzo, gli do le spalle: guarda questo culo; adesso te lo fai. Adesso ti porgo le bustine (le sai aprire, quelle?) e tu ti metti il preservativo, mentre io mi sporgo leggermente in avanti e con le mani allargo le natiche. Guarda questo buco, ha voglia del tuo cazzo. Accontentalo, fagli questo favore.
Si spalma il lubrificante sul cazzo, gli prendo la bustina per mettermene qualche goccia sul dito e bagnare il culo. Ho il buco dilatato. Sono aperto, puoi entrare. Un colpo. Brucia. Un altro colpo, grido. Scivola dentro. Ha le mani sui miei fianchi, mi afferra, comincia ad andare dentro e fuori. Lo sento dentro e godo. Inizia ad accelerare, dà colpi più forti, in quella posizione ondeggio e quasi perdo l’equilibrio.
Mi giro di scatto, il cazzo mi esce dal culo, mi guarda stupito e subito mi riacciuffa i fianchi con le mani. Hai paura che me ne vada e che ti pianti qui, cazzo in tiro, senza aver concluso? È proprio matto. “Vieni”, gli dico, mentre mi avvicino a un albero, allungo le braccia e appoggio le mani sul tronco, divarico le gambe e sporgo il culo. Mi sembra di avere un buco enorme e adesso quello che voglio è solo il suo cazzo dentro fino in fondo. Me lo rimette dentro d’un colpo e m’incula. Forte. Ansima sempre più e a me piace da morire allungare una mano sotto la mia pancia, oltre il mio cazzo e carezzargli i coglioni mentre lui va sempre più forte e me li sbatte contro.
Un suono strozzato e piccoli colpi con cazzo ben piantato nel mio culo: sta sborrando. Porto la mano al mio uccello, due o tre movimenti e sento il buco pulsare, il cazzo contrarsi ritmicamente e il bianco cadere in terra. Sto ancora ansimando che lui già lo sfila. Lo vedo togliersi il preservativo, lasciarlo cadere e poi “ciao”, mi dice, e già si allontana.
Ciao, uomo. Al prossimo anno.


Altre mie avventure estive? Qui.

sabato 18 febbraio 2012

Sogno (è tornato)

Groviglio di pensieri, di sentimenti contrastanti, di situazioni non chiare. In certi momenti della vita o della giornata, si è per forza (?) in due. Ed è già così difficile capirsi da soli, figuriamoci cercare di comprendere sé stessi e anche l’altro. E se teniamo presente che una coppia significa Noi e non solo Io più Lui, abbiamo già tre entità cui pensare.

Devo prendere un aereo. Io e Lui stiamo facendo una corsa pazza per arrivare in orario. Sono sempre più convinto che ci siamo sbagliati: il nostro volo era alle quattro, non alle sei. 

Lui mi ama, non c’è dubbio. Io lo amo, ne sono certo. E allora, qual è il problema?

Abbiamo un ritardo di due ore, non ce la faremo mai. Massì, massì, figurati, ce la facciamo. Invece no. Guardo il piazzale dell’aeroporto dalla scaletta di un aereo giallo senza passeggeri nè comandante, so che non partirà.

Terribile è poi la situazione di chi si sente preso tra due fuochi: Lui e l’Altro. Vanno considerati entrambi? Separatamente? Separarsi da uno per andare verso l’altro? 

Cosa sente l’Altro per me? E io per lui?

Te l’avevo detto, l’orario era sbagliato! E adesso?

Separarsi da entrambi per stare finalmente soli con sé stessi? Io, Lui, Noi, l’Altro. Mancano gli Altri. E il Lavoro. E la Famiglia. E...

E adesso niente, Lui prende una Vespa, s’infila un casco sulla testa e se ne va. Così, senza dire nulla. Dalla scaletta osservo la folla di passeggeri brulicare e muoversi in tutte le direzioni. Io resto fermo a guardare.

E viene voglia davvero di mandare tutto al diavolo.

venerdì 17 febbraio 2012

A volte tornano

IV.

La spiaggia è di nuovo quella, siamo tornati sul luogo del delitto. Ci sistemiamo al solito posto, ombrellone e asciugamani un po’ in disparte, tra le dune, al confine tra la spiaggia vera e propria e la zona proibita.
Sono solo in questo momento perché il mio ragazzo è partito per il suo giro esplorativo. A un certo punto, sento dei gemiti provenire da un luogo indefinito, oltre i cespugli. Mi allontano quindi di qualche passo dagli asciugamani e vedo, all’ombra di due alberi, due ragazzi in una posizione che non lascia adito a dubbi: uno è in piedi, mentre l’altro è in ginocchio davanti a lui. Il pompinaro ha gli occhi chiusi mentre muove la testa ritmicamente avanti e indietro per far scivolare il cazzo nella sua bocca. Non l’ho mai visto prima. È giovane. Sembra concentrato sul lavoretto che sta facendo. Si applica.
Il ragazzo che sta in piedi si accorge presto della mia presenza, ci scambiamo uno sguardo ed io lo riconosco immediatamente: è il tipo dell’altro giorno, il maiale che ho sbocchinato mentre prendevo anche l’uccello del mio ragazzo. Sorrido, pensando a com’è porco e a come mi eccita, però lui non cambia espressione. Decido comunque di lasciarli soli al loro destino e torno agli asciugamani, ligio al mio dovere: non è ancora il mio turno.
Non sono passati neanche dieci minuti da quando mi sono steso di nuovo sul mio telo da bagno che d’improvviso vedo sbucare e dirigersi verso di me il maiale. 
La visione è quasi surreale, perché sembra avere una gran fretta, appare agitato e cammina con il cazzo duro che ondeggia leggermente a ogni passo. Si pianta giusto davanti a me, osservando guardingo a destra e sinistra. Sono così sorpreso, che non faccio nemmeno in tempo a pensare “che cazzo vuole?”, mentre osservo il suo corpo abbronzato, proporzionato, molto bello.
“Allora, come va?”, mi chiede con tono distratto, come se ci fossimo incontrati per strada e la domanda fosse pura cortesia.
“Bene. Tu?”, gli dico.
“Tutto bene, tutto bene...”, mi risponde con quel sorriso davvero perverso che già conosco.
Nel frattempo io mi sono messo seduto. Lui allora fa l’ultimo passo che gli resta prima di starmi addosso, si impugna il cazzo e lo avvicina alla mia bocca finché la cappella sfiora le mie labbra.
“Fammi un pompino, dài”. La decisione e il tono della sua voce mentre pronuncia queste parole trasmettono tutta l’eccitazione di cui evidentemente è preda, ed elettrizzano anche me. Mi stordiscono. Inebriato da tanta lussuria, mi lascio fare. Prende la mia testa con una mano, la spinge contro il suo cazzo mentre io ho già schiuso le labbra e lo lascio entrare. Già so quello che farà. E infatti: appena la sua cappella sbatte contro la mia gola, ritira il cazzo quasi fino a farlo uscire, poi inizia a muoversi avanti e indietro, cercando di mantenere la mia testa più ferma possibile, adesso tenendola con due mani. Mi sta scopando la bocca. Altro che pompino. Il maiale condisce il tutto con le solite, consuete, banalissime ed eccitantissime domande: “Ti piacciono i cazzi, eh? Puttana... E il mio ti piace?”. Io gli rispondo come posso, gemendo, e so che sono proprio i gemiti ciò che vuole sentire.
A un certo punto fa uscire il cazzo e mi ordina: “Apri la bocca!”. Eseguo, pensando che voglia ficcarlo di nuovo dentro, invece afferra l’uccello e, con un movimento rotatorio, sfrega la cappella contro le mie labbra. “Guardami!”, mi ordina ancora. Evidentemente mi vuole così: in ginocchio, con espressione adorante, il dio cazzo pronto a fottermi ancora la bocca, i miei occhi nei suoi. Sì. Adesso è di nuovo col cazzo dentro la mia bocca, fino in fondo, ma invece di scoparla, si ferma così. Tutto dentro. Chiudo gli occhi e trattengo il respiro. Un po’ di saliva gli sta bagnando le palle.
“Leccami le palle”, mi dice e io mi libero di tutta quella carne che invade la mia bocca ed eseguo. Con una mano spingo il suo cazzo contro la sua pancia e gli lecco i coglioni, premendo forte la lingua. Lo sento gemere, finché non resiste, afferra la mia testa con due mani, apro la bocca e mi mette di nuovo il cazzo dentro; Mi sta di nuovo scopando la bocca, con ancor più impeto.
Finché lo sento gemere sempre più forte e percepisco che il movimento avanti e indietro si fa sempre più serrato. Di colpo si ritrae, fa un passo indietro e, mentre ansima, dal suo cazzo esce la sborra. Adesso con una mano si sfiora il petto, con l’altra accarezza il cazzo e lo aiuta a far uscire gli ultimi schizzi che finiscono sulla sabbia calda.
Lo guardo completamente stranito, lui mi sorride e se ne va.


sabato 11 febbraio 2012

Mani in pasta (ogni scusa è buona)

In amore e nel sesso fa sempre bene un po’ di creatività. Così, siccome lui è “timido” e non dico non chiama, ma nemmeno scrive se non direttamente sollecitato, me ne faccio una ragione una volta per tutte, mi rassegno al mio ruolo (ti cerco, cercami - non ti cerco, cercami) e decido... di bere un po’ più del solito.
“Sai cos’ho sognato stanotte? Eri un pasticciere...”, mi dice Val ieri a pranzo, non risparmiandosi i dettagli. Non è la prima volta che mi sogna e anche a me è capitato di vederla co-protagonista d’incredibili e ben più erotici deliri notturni, frutti saporiti della fase REM. Che coincidenza, cara Val, proprio oggi che volevo friggere un po’ di chiacchiere! Così, un bicchiere di rosso dopo l’altro (un bicchiere di troppo dopo l’altro), prende forma il piano di riavvicinamento al corpo (e a un pezzetto d’anima, forse) di R., lo sfuggente.
“Val, io me ne vado”.
“Di già?”.
Ovvio. Non ho forse molto da fare in casa? Gli ingredienti sono: farina, burro, uova, latte,  un goccio di grappa o rum, zucchero, un pizzico di sale e ovviamente olio per friggere. Mani in pasta. Mattarello per spianare l’impasto, rotellina per ricavarne rombi dai bordi zigrinati e taglietto nel mezzo. Frittura. Zucchero a velo. Whatsapp.
“Ho appena finito di preparare un dolce di Carnevale. Vuoi provarlo?”.
“Sono ancora al lavoro, oggi recupero. Sei da solo?”.
“Per il momento sì, ma preferisco portarlo a casa tua”.
“Allora alle 5,30, solito incrocio, passo con la macchina, esco adesso”.
“Hai un liquore?”
“Sì, uno alle erbe”.
“Sei sicuro che ti va?”.
“Che cosa, il dolce o il sesso?”.
“Ok, vado”.
La mia borsettina a tracolla sembra la tasca di Eta Beta, qualsiasi cosa pensi di metterci dentro, ci sta. Chiacchiere comprese. Allora via, fuori di casa, quasi di corsa fino alla metro e in tempo record vengo catapultato nel suo quartiere. Bip-bip: sono in ritardo; non importa, parcheggio e ti aspetto fuori. Accelero il passo, ci siamo quasi. All’incrocio del suo isolato, chi ci trovo? S., appena uscito di casa, cappotto scuro, sigaretta in bocca.
“Ciao bello!”, gli dico. Nel suo caso, non è solo un modo di dire.
“Ehi, come va?”.
“Bene. Dove stai andando?”.
“Al cinema, con amici. E tu? Vai a trovare R.?”. Mi sorride malizioso (no, complice; no, empatico). Accenno un sì. “Salutamelo, allora”.
Corro e lo trovo davanti al portone, valigetta in mano.
“Non serve correre tanto”. Sì che serve. Sorrisi a novanta denti. Luce negli occhi. Chiave nel portone, poi passo l’uscio di casa per l’ennesima volta. Mi sciolgo di nuovo. Sto bene qui e non riesco a pensare ad altro che a questo: sto bene. Ci tocchiamo ancora e a me sembra un miracolo. Un altro. Mani sulla testa, tra i capelli. Le guance. La barba. Nelle mani. Sul braccio. Non mi sembra vero e non riesco a pensare ad altro che a questo: non mi sembra vero. Scambiamo qualche parola: è stanco, ha dormito poco stanotte, ha ancora i postumi dell’influenza. Ma ci sono io qui. La tua pelle è morbida. Sto bene, non mi sembra vero.
“Adesso non ho fame, preferisco mangiare dopo la...”. Scopata. Ridi. “Va bene, allora passiamo alle pulizie!”. Mi spoglio in fretta e, siccome vedo che tergiversa, mi fiondo nella doccia senza aspettarlo. Acqua calda, vapore. Mi raggiunge. Parliamo molto meno del solito e a tratti ci sorridiamo, un po’ ebeti (“timidi”). Dopo qualche minuto siamo sotto le coperte, nudi e infreddoliti, i capelli ancora umidi e i corpi titubanti. Si gira su un fianco, dandomi la schiena (“mmmrrh?”, quasi come un gatto). A me l’iniziativa, dunque? Ma con molto piacere, R.!
Lo accarezzo un milione di volte: le spalle, i fianchi, il culo, il collo, le gambe, le spalle, le braccia, la mano, il culo, il collo... Premo i pollici simultaneamente vicino alle sue scapole, massaggio le spalle, passo gli indici lungo la spina dorsale. Insinuo la mano tra le sue natiche, la sfrego contro il buco. Emette brevi gemiti sommessi con la bocca chiusa. Ha gli occhi chiusi. Un dito sfiora accidentalmente la cappella che sporge da sotto il suo bacino, gonfia e rossa. Gli piace. Ho la vista e il tatto inebriati dal suo corpo, non riesco a fermarmi e ogni neo, ogni punto rosso sulla sua schiena sono altrettanti appigli per i miei sensi. Lo lecco, dal culo su su lungo la schiena, fino al collo e all’orecchio. Con la sua mano cerca un contatto, io faccio strusciare la parte bassa del mio corpo contro le sue gambe e il mio cazzo duro preme contro le sue natiche.
Si alza sul letto, si erge restando in ginocchio. Gli sono dietro, anch’io in ginocchio, e adesso lo cingo con le braccia, ben stretto a me. Ci baciamo, bocca contro bocca, ansimando, mentre con una mano gli solletico un capezzolo. Ha il cazzo duro e la mano scende anche lì, a sfiorare le palle e a menarglielo lentamente.
Si stacca da me, prende dal cassetto il lubrificante e io mi ritrovo del tutto logicamente a quattro zampe. Lavora il mio buco con le dita, ma per pochissimo. La posa del cappuccio avviene molto prima del solito e io godo anche solo nel vedere come lo srotola sul suo uccello in tiro. Si mette dietro, mi afferra per i fianchi, punta la cappella e mi penetra. Fino in fondo, subito, con decisione. Comincia il movimento avanti e indietro, dentro e fuori, ed è quando dà un colpo secco fermandosi per un po’ col cazzo piantato fino in fondo al mio culo che godo davvero. “Sì”, ripeto più volte. Dopo un po’ mi chiede di appoggiarmi alla parete: “Voglio che stai più su con la schiena, mi piace vederti così”. E ricomincia la sua cavalcata. È così energica e a me piace così tanto che io perdo un po’ di sborra, pur senza venire. Poi lo tira fuori, mi afferra per una spalla per farmi allontanare dalla parete e mi spinge la schiena verso il basso, perché mi sistemi a pancia in giù. Me lo sbatte dentro e io sporgo il culo per offrirglielo meglio.
A un certo punto pare arrendersi: “Ho bisogno di riposare un po’”, mi dice adagiandosi su un fianco e trascinandomi parallelo al suo corpo. Continua a penetrarmi, però fiaccamente. Sei stanco? Ci penso io, non preoccuparti. Faccio uscire il cazzo dal mio culo, faccio stendere R. a pancia in su e gli lecco un capezzolo, mentre con una mano sfioro l’altro. Ormai conosco il segreto. E infatti si riprende rapidamente, mi fa mettere di nuovo a pecorina e mi penetra. Mi stuzzica: toglie il cazzo e allarga le mie natiche, osserva il buco, lo vuole vedere aperto, ci gioca con le dita e con la punta del cazzo, che fa roteare sul bordo. Poi è di nuovo dentro e adesso lo sento grosso. Sono pieno di lui e godo. Il ritmo e la forza con cui mi sta inculando aumentano poco a poco. Non mi avvisa, ma viene ansimando e dando dei colpi molto forti. Sborro a mia volta spandendo seme sulle sue lenzuola e sorrido (dentro e fuori: la felicità pulsa nel mio culo e nella mia testa).
Resta sopra di me, il cazzo infilato dentro, e mi bacia mentre qualche spasimo ancora lo scuote. È serio quando fa uscire il cazzo, badando a non sfilare il preservativo, e corre in bagno a lavarsi. 
Le chiacchiere sono fini e croccanti. Che buone, mi dice. E se ne fa una bella scorpacciata, accompagnandola con il liquore alle erbe fatto dal padre di una sua amica: “È in pensione, si annoia”. Ce ne serviamo due volte. Il mondo là fuori può aspettare.
Anche qui ci sono dolci tipici di questo periodo, mi dice. E mi annota su un foglio i nomi di quelli della sua regione. Parliamo di cinema. Mi consiglia due film, dello stesso regista. “Surreali, anche se sembrano parlare della vita quotidiana. Tutto sta nella fotografia”. Poi prende i dvd: “Tieni. Te li presto, se vuoi”. Voglio.
Qualche minuto dopo, sono seduto davanti al computer, perso a osservare le sue foto ("luglio 2011", c’è scritto), ma la realtà torna a farci visita: vado a un incontro con un fotografo. Io devo tornare a casa. Dài, ti accompagno un pezzo a piedi, poi prendo la metro. Va bene, bestiolina. Andiamo? Andiamo. Dammi un bacio, dài. Ciao bestiolina, divertiti. Ciao [sorride e sembra contento; sfumare al nero, prima che si giri].

mercoledì 8 febbraio 2012

Movimento

Crisi di coscienza. Io ho cose più importanti da fare che lavorare. Devo scrivere. Scriver(n)e per vivere.

Mi sveglio con un gran vuoto dentro. Una mancanza. Non è al mio fianco. Manca. Mi manca. Ma il nuovo motto è: non si soffre per le cose belle.
Ho confessato le mie paure a C. che, paziente, mi ha ascoltato, come sempre. Non spreca mai una parola e quello che dice ha il potere di riverberarsi dentro la mia coscienza, amplificarsi e prendere forma come qualcosa di fondamentalmente vero. Di corretto. Di esatto, giusto. È così che, dopo essermi perso, mi ripiglio. Così questa mattina, ancora a letto, senza l’immane coraggio necessario per uscire da sotto le coperte, alzare la tapparella e dirsi “continuiamo”, penso che non mi priverò del piacere (del diritto) di far arrivare a destinazione ciò che sento. Solo mi disferò della paura, sommamente inutile.
La naturale conclusione di un pensiero o di un’emozione è emetterli, esprimerli. Però oggi lo faccio con un’ottica differente, uno spirito nuovo e un autocontrollo che non pensavo di avere (complice non solo la saggezza di C., ma anche una lettura, del tutto fortuita). Niente aspettative. Esprimersi, godere appieno del momento che si vive, lasciare che l’altro osservi la nostra posizione, il posto in cui ci troviamo - se gli va - e riconoscere il luogo dell’altro: non dobbiamo per forza incontrarlo nel punto esatto in cui siamo noi, possiamo accettare che ci osservi dal suo (e augurarci, senza pretenderlo, che il suo sguardo si posi lieve su di noi). La vita è movimento, il disequilibrio non è il punto fondamentale. Non pretendere nulla. Non perdere nulla.
“Ciao bestiolina. Mi manchi”. 
“:)”.
Punto. Tutto ciò che dovevo a me stesso, almeno per ora, l’ho fatto. Adesso la giornata può cominciare sul serio. Lavoro. (Non rinunciare a dire quel che senti in qualsiasi momento ti capiti, l’importante è non perdere dignità ed essere sempre coraggiosi e onesti). Arriva il pomeriggio. Se sulla gran città sta per abbattersi il temporale, mi dico, è ormai tempo di cercare rifugio.
Vieni alle 6. Alle 8 dovrei già andarmene, se puoi prima, meglio. 
L’incrocio di quella volta che sono passato in macchina, ricordi? Come dimenticarlo.
Mi cambio. Pantaloni larghi, grandi tasche ovunque: troppo grigio? Fa pendant con questo tempo fantastico. Barba di due giorni: piacerà? Piace a me e oggi è tutto ciò che conta. Un chilometro e ottocento metri. Ho il tempo di andare a piedi. Lunghissima discesa fino al viale, poi ancora dritto. Attraversare. Leggera pendenza. All’incrocio girare a sinistra, poi subito a destra. Adesso sempre dritto. Poi dovrei andare ancora dritto, ma sta passando proprio ora con la sua auto, gira, accosta e si ferma. Sorride, sorrido. Sprazzo di sole.
Non per un’ora d’amore, ma per un abbraccio tuo non so cosa darei. Droga. È droga. Non solo calore, vicinanza, lacrime di gioia. Amore? È droga. Me ne starei così il resto della mia vita. Sembra pace e così io mi fermo esattamente lì: bocca schiusa - bacio - barba morbida - abbraccio - stretta forte - respiro forte - mani sulla schiena - vicino - vicino. Sei dentro, ci stai tutto? Io mi fermo esattamente lì. Su quel divano. Con l’orologio da stazione ferroviaria che sporge dalla parete e segna le diciotto e sette. Il riscaldamento che soffia aria calda. Le tapparelle abbassate. La coperta.
Così ciò che segue e precede non serve. È inutile fronzolo e, al massimo, dà a R. ciò che  vuole: scaricarsi e godere del mio corpo compiacente (“solo” per questo siamo lì?). “Non vuoi venire?”. “No”. “Sicuro?”. “Sì, ma baciarti, questo sì”.
Se la vita è movimento, perché cazzo io sono ancora lì?

lunedì 6 febbraio 2012

Uno di quelle parti

La parentesi Liala è durata fin troppo, e dal fronte R. nessuna novità, a parte una mia maggiore consapevolezza e serenità (ma non disperate, o voi che a frotte vi affannate per saperne di più: sarete aggiornati). Sicché riprendiamo i quadretti estivi, memorie tanto più necessarie quanto più il freddo ci attanaglia. Siamo al terzo. Gli altri qui.

III.
Anche questa volta sono completamente nudo e passeggio tra le dune e gli arbusti retrostanti la spiaggia cercando un po’ di compagnia e di piacere, mostrando direttamente a chi voglia vederli il mio cazzo e il mio culo: è la tecnica wysiwyg (what you see is what you get, cioè quel che vedi è tutto ciò che potrai avere), il che evita successive delusioni.
Mi sta guardando, fermo a qualche metro da me. Avrà trent’anni al massimo, carino però fin troppo vestito per i miei gusti. In pieno agosto e in una spiaggia nudista (benché tra le “quinte”), il soggetto in questione veste: una maglietta a maniche corte, pantaloni corti azzurri, ciabatte e cappellino. Porta anche un paio di occhiali scuri ed è forse l’elemento che lo veste di più e che mi rende in un certo senso più vulnerabile: lui mi osserva ma io non posso vedere i suoi occhi.
Mi sorprende un po’ perché, invece di fare come gli altri, cioè dirigersi direttamente e in silenzio nell’anfratto scelto per stare assieme, mi rivolge la parola:
“Ciao. Ti va di scopare?”. Evidentemente non sopporta i fronzoli, ma non è nemmeno affetto da mutismo.
“Sì”, gli rispondo, “andiamo qui”, e gli indico un piccolo spiazzo tra i cespugli. Mi avvicino al luogo in questione, lui mi segue ma si ferma di colpo.
“È che qui non saremmo soli”, mi dice, accennando col capo a una coppia di ragazzi che sta facendo la ronda da un bel po’ e ad altri due uomini più lontani che ci osservano.
“E allora?”, dico io.
“Non so, ci sono anche bambini...”. In effetti, sebbene questi non si vedano da nessuna parte, si possono distinguere le voci di un gruppetto di ragazzini che giocano fra le dune. Il ragazzo allora si guarda intorno, cercando con lo sguardo un posto più tranquillo per noi.
“Vieni”, mi dice a un tratto e io lo seguo.
Si incammina verso la parte alta delle dune e questo m’inquieta un po’. Mi chiedo dove mi porterà, così lontano e comincio a innervosirmi perché mentre io dietro trotterello nudo, lui è completamente vestito: lo squilibrio mi disturba. Alla fine arriviamo a un posto che già conosco, per esserci stato l’anno precedente con un altro ragazzo. Si trova in mezzo agli alberi, però sulla costa di una duna piuttosto alta. Arrivare fin lì per pura casualità non dev’essere comune.
Una volta sistemati dentro quel minuscolo spiazzo, ci ritroviamo in piedi, uno di fronte all’altro. Comincia a toccarmi il cazzo, che diventa subito duro, ma io voglio vedere il suo, quindi gli abbasso i pantaloni e gli slip e libero l'uccello, già eretto. Come misure siamo perfettamente nella media, ed è un bel cazzo, anche se un po’ torto. Senza che io dica niente, prende l’iniziativa: si inginocchia, afferra il mio cazzo con una mano e se lo ficca in bocca. Succhia davvero bene e la sensazione che mi regala è molto gradevole.
Continua così per qualche minuto, dopodiché si alza e mi fa:
“Me lo succhieresti un po’?”. È uno dei pochi che me lo chiede direttamente e trovo la domanda, a suo modo, dolce.
“Certo”, gli rispondo. E m’inginocchio a mia volta. Prendo il suo cazzo con la mano, tiro la pelle per scappellarlo bene, me lo metto in bocca e comincio il servizio.
Sembra che gli piaccia perché si lascia scappare piccoli gemiti che mi inducono a spompinare con ancora maggior impegno, accarezzando i suoi coglioni lisci e morbidi con la mano rimasta libera. Poi comincia ad alternare delle leccate decise alle sue palle, con una serie di “gole profonde”, perché voglio sentire la sua cappella premere contro il fondo della mia bocca.
Ci sono parole che mi eccitano più di mille gesti, come ad esempio queste:
“Sì, così... Come succhi bene, sei un bravo ciucciacazzi”. Dice proprio così: ciucciacazzi. Allora mi prende la testa tra le mani e comincia a scoparmi la bocca. Sono così su di giri che la saliva mi cade dalla bocca quasi a fiotti.
“Ti piace?”, mi chiede.
“Mmmh-mh”, è l’unico suono che riesco ad articolare.
Dopo un po’ faccio uscire il suo cazzo dalla bocca e gli chiedo:
“Come ti piace venire?”.
Sorride, si guarda intorno come per assicurarsi che nessuno ci stia sentendo, e mi risponde:
“Sborrando sulla faccia”.
“E ti manca molto?”.
“No, non mi manca molto. Apri di nuovo la bocca e succhialo”.
Così, mi fotte ancora un po’ la bocca, sempre più forte, finché lo sento che ansima e dice:
“Io vengo!”. 
Allora estrae il cazzo, io giro la testa di lato in modo da offrirgli la guancia, e tengo la bocca ben chiusa. Dopo pochissimi secondi, dalla cappella comincia a scendere il suo liquido caldo che bagna prima la mia guancia, poi il petto e il braccio.
Dai suoi pantaloncini uscirà tutto l’occorrente per asciugarmi bene e tornare in spiaggia come se niente fosse. Di lui saprò solo che era uno “di quelle parti”.

domenica 5 febbraio 2012

Pene (nel senso di dolore)

Devo mettere un po’ d’ordine in questa mia piccola testa di cazzo. Quando e come è cominciato tutto questo? Quasi tre mesi fa, chattando. Cercando cosa? Sesso. È stato R. a contattarmi per primo. “Ciao, bel corpo”. Che cercassi solo quello, era evidente.
“E tu?”
“Io cerco l’amore... ma nel frattempo non disdegno il sesso. Anche perché penso che da lì può venire qualcosa di più. Cerchi sesso solo per una volta?”.
“Mi piacerebbe di più poterci rivedere, se ci va. E tu?”.
“Se ci piacciamo e ci piace quello che facciamo, sì”.
Oggi, in questo momento, gli invidio quella serenità olimpica, che io ostentavo all’inizio (per me è solo sesso, baby, come con gli altri) e che ora ho perso.
Mi ha fatto penetrare nel suo mondo, fin dall’inizio. È venuto a cercarmi alla fermata della metro (“che giornale avrai?”, gli avevo chiesto per scherzare; “nessuno, però se vuoi mi metto un berretto”), poi, una volta in casa sua, mi ha fatto un panino perché gli avevo detto che non avevo pranzato. Ha cominciato a baciarmi in cucina, il più bel “benvenuto” che abbia mai ricevuto (“scusa il disordine” e io mi metto a ridere e balbetto qualcosa; “poteva anche essere peggio, no?”). Poi abbiamo bevuto una birra seduti sul divano del suo salone. La vicinanza mi turba e allora parlo, chiedo, m’informo. Risponde sorridente, mi guarda molto, mi posa una mano sulla coscia. “Sai suonare il piano?”, gli chiedo, notando che ce n’è uno nel salone. Sorride. “Sì, vuoi che suoni qualcosa?”.
Ecco, mi ha conquistato già. Adesso può succedere qualsiasi cosa. Infatti, dopo aver suonato, torna a sedersi sul divano e mi bacia. Cominciamo ad accarezzarci, come due animali che si annusano e si studiano un po’. Sento crescere l’eccitazione e scopro subito il suo punto debole: passo le dita sulla sua maglietta in corrispondenza di un capezzolo, gli piace da morire. “Stai comodo?”, mi chiede a un tratto. Ohibò, bizzarra domanda. “Sì, molto”. “No, lo dicevo per sapere se vuoi che andiamo in camera”. Ah, già, che scemo. Mi prende per mano, letteralmente, e mi accompagna fino al letto. È dolce. Avevo intuito che lo fosse, ma non così tanto. Ha gli occhi chiari, i capelli corti, la barba curata, un bel sorriso. La pelle è bianca e morbida. Non si depila minimamente (ha il petto e la pancia ricoperti di un pelo non troppo fitto, morbido) e un cazzo bello grande, come le palle.
Stop. Il punto è: mentre mi fa penetrare il suo mondo (mi presenta amici, usciamo a prendere qualcosa, mi parla di sé, della sua storia complicata e a tratti molto dura, della sua famiglia, dei suoi studi, del suo lavoro...), l’unica cosa che di me interessa a lui penetrare è il mio culo. Perché chiede poco, e ascolta ancora meno. E così, mentre io mi perdo, assurdamente e inaspettatamente, nella sua bocca, nei suoi gesti, nel suo modo di fare... lo perdo. Me ne (invaghisco? infatuo? innamoro?) e lo perdo. E mi perdo. 
Se per lui io sono solo uno svago in attesa della “persona giusta”, se per lui è solo sesso e per me doveva essere solo sesso, perché adesso sta diventando così importante?

giovedì 2 febbraio 2012

R. è sempre online

“Ciao, bestiolina (nel suo idioma, traduzione mia). Hai messo ordine e disciplina nella tua vita?”.
“Vuoi dire fare sesso ogni giorno alle sei?”.
“Faceva parte del programma, no?”.
“Sarebbe un ‘nice to have’”.
“O un ‘must’. Hai pranzato bene? Io sì, con un bicaire di vino”
“Boccia” (correttore automatico on). “Porca puttana”. “Bicchiere”.
“:-) Bicchiere o bicchieri?”.
“Sembrano molti ma era solo uno. Che fai oggi, a parte lavorare?”.
“Vuoi un appuntamento?” (lo scrive in italiano).
“Cazzo, sì!!!”.
“Vuoi mangiare il mio rigatone? :-))” (sempre in italiano).
“Il tuo cannolo!”.
“È che con le vene sembra un rigatone! :-))”.
“Ripieno di crema! Mmmmh”.
“Puoi alle 6?”.
“Oggi posso quando cazzo ti pare”.
“Allora alle cinque e mezza se vuoi, e facciamo la doccia assieme”.
Dea, il testo te lo mando un altro giorno, ok?

P. il centometrista batte ogni record

“Avrà proprio così tanta fretta? O le palle piene fino a scoppiare?”. È l’unica cosa che riesco a pensare mentre P. schiaccia la sua bocca contro la mia, me la lappa, la sugge, la morde. È che ho fatto appena in tempo a intravederlo salire le scale che in un nanosecondo è già dentro casa. Quando mi stacco da quel bacio e dall’abbraccio focoso con mano direttamente sul culo, posso finalmente chiudere la porta. Salutarsi? E perché?
Capelli sale e pepe, più magro di quanto mi aspettassi, piuttosto alto. Sguardo nero pece, barba di tre giorni, sorriso timido. Dico: “Ci mettiamo qui”, indicando la stanza. Nè a nè b, mi sta già togliendo la parte di sopra e ribaciando. “Aspetta”, gli dico, abbasso le tapparelle e accendo una lampada. Avrà parlato con Santi? I due si frequentano... Vabbè, insomma, organizzano trii. Avrà saputo che non disdegno l’approccio diretto? Certo, per essere la prima volta, questo è un direttissimo, un rapido, un accelerato. Durante l’incontro mi dirà “bello”, “figo”, userà termini come “fighetta” (anche lui!) riferendosi al mio buco, affermerà “sei mio, adesso sei mio” e mi chiederà tre volte “ti senti bene?”. Sì, mi sento divinamente, anche se alquanto stordito.
Ma lui già lo ficca dentro, dopo aver abbondantemente sputazzato la parte ed essersi messo un preservativo. Entra facilmente e si muove agile tra le mie carni. Vengo in tempo record mentre sono a pancia in su col suo cazzo ben piantato dentro di me: la vista della mia sborra lo eccita ancor di più e così finisce anche lui, senza far troppo rumore. Ma io ho goduto di più poco fa, a pancia in giù, perché in quella posizione ci dava dentro proprio bene.
Ok, abbiam finito, e allora? E allora giù tutta una chiacchierata sulla vita, l’amore, la coppia, il sesso e i massimi sistemi, dalla quale emerge, tra l’altro, che mi ha appena trombato un ex primo ballerino dell’accademia nazionale di danza. Ah-ha, molto interessante. Immagino che sia il recupero per aver bruciato i tempi all’inizio. Mica me lo doveva, però piano piano io ci prendo gusto, m’interesso e mi apro alle sue domande. Poi si riavvicina. Carezze, baci, abbracci e un massaggio davvero gradevole alla schiena. Lui a me.
“Ti scoperò ancora”. È una minaccia? No, il suo modo di dire arrivederci.

mercoledì 1 febbraio 2012

Se c'è una cosa che mi fa impazzire

È il cazzo di Santi. Ma non inteso solo come uccello, fallo, membro eretto dalle notevoli dimensioni e dalle già lodate caratteristiche. No, nel senso del significato espresso da quel  cazzo duro che in sé simboleggia e riassume l’intero Santi, o meglio, ciò che Santi è per me: puro sesso, mera libidine, troiaggine al cubo.
Ieri l’ho assaggiato per la terza volta e non mi ha deluso. Tutto il contrario. L’intesa è ormai perfetta e funzioniamo come due orologi svizzeri: “voglio farmi aprire il culo”, “conta su di me”, “a che ora?”, “alle quattro”, “sarò lì alle quattro e mezza, va bene?, “ok”, “sono qui sotto, apri”. Trump-trump-trump, qualche gradino fino al primo piano, interno c. Mi apre e, tanto per non perdere tempo, comincia a palparmi il culo. Senza che quasi me ne accorga, si toglie i quattro straccetti che indossa e rimane con gli slip bianchi. Gonfi. Io vengo spinto dalla sua mano sapiente verso il basso, come se avessi bisogno d’incoraggiamento (ma il mio cervello è già là, davanti al suo cazzo e prende la sua forma, diventa cazzo). No, non ci scendo (ancora) così in basso, sarà passato un minuto da quando sono entrato e devo per lo meno giocare al tipo rispettabile. Per puro sfizio, non perché io sia rispettabile, intendiamoci. Così mi fermo all’altezza del suo capezzolo sinistro e glielo succhio. Premessa di ben altre suzioni. È sensibile a quel titillare, ma è anche persona assai pragmatica: quando gli tira il cazzo, lo deve liberare, preliminari o no. E così, con gesto rapido, si sfila gli slip ed appare Mazza. Ammazza.
Non è la prima volta che lo vedo (ribadisco), eppure anche oggi l’attrazione è fatale. Una calamita. (Rewind: sulla metropolitana che mi portava verso casa sua, pensavo a come mi sentivo diverso oggi rispetto all’ultima volta; oggi sono un po’ scazzato e ho voglia, sì, ma non sono esattamente in calore; l’altra volta, invece, mi sarei fatto aprire lì, in carrozza). Ed allora la voglia aumenta, invade il mio pensiero, se ancora me ne resta uno, e io cado letteralmente in ginocchio davanti a quel bel pezzo di carne dura. Apro la bocca e comincio a spompinare. Sto già mugolando. Ho addosso ancora tutti i miei vestiti eppure sono già nudo, perché il gioco è fin troppo scoperto: mi piace succhiare cazzi e prenderli nel culo e il tuo Santi, mi piace particolarmente. E sono di nuovo cagna in calore. E tu lo sai.
Leva l’uccello dalla mia bocca, mi toglie i vestiti della parte superiore con poche mosse. Resto a torso nudo e mi tortura i capezzoli stringendoli tra le dita. Sì, è il mio corpo, sono proprio io quello che mugugna. Poi i pantaloni. Le scarpe. I calzini. Spinge la mia schiena in avanti perché sporga il culo verso di lui. Faccio per sfilarmi gli slip, ma lui: “Nooo, no! Ancora no, troietta”. E li scosta solo un po’ di lato per osservare in mezzo alle natiche l’oggetto del suo desiderio. Ci passa sopra un dito, lo inumidisce con saliva, poi lo ripassa. “Sei già aperto”, dice. Capisco che non è una domanda e non è nemmeno una richiesta implicita affinché gli dia il permesso di entrare, di farci quel che vuole, di quel mio buchino. No, è l’affermazione del suo possesso, la constatazione di averlo già espugnato. È solo questione di minuti. Lui lo sa, io lo so.
Si inginocchia sul letto e mi ordina: “Vieni qua, adesso ti fai una bella indigestione di cazzo, vieni”, e io mi metto a quattro zampe, la testa fra le sue cosce. Mi scopa la bocca, avanti e indietro, riempiendomela letteralmente di sé. Io riesco solo a mugolare e ad accarezzargli le palle. Lui mi prende la testa con le mani e continua: “Così, così”. Si ferma a un tratto e si china in avanti, per mettere una mano sul culo. Gli assesta un paio di pacche che schioccano forti, poi passa un dito sopra il buco, senza togliermi gli slip. “Lo senti che è già aperto, lo senti?”. Io ho ripreso a pompargli il cazzo muovendo come posso la testa, però allungo una mano dietro per togliermi finalmente gli slip e lui mi aiuta. “Voglio spaccartelo”, mi fa sapere sfilando il cazzo dalla mia bocca ed io con sospiri eloquenti gli trasmetto il mio entusiastico assenso. 
Santi l’intenditore. Santi la bestia. Santi il chiavatore, coglie perfettamente l’attimo e, siccome ce l’ho “già aperto”, si tratta solo di indossare un preservativo, lubrificarlo, mettere una goccia sull’orlo del buco senza neanche infilarci un dito, foss’anche un mignolo, e appoggiare la cappella grossa e dura lì dove già tanti l’hanno ficcata, con risultati alterni. Scoop! Notizia che ha dell’incredibile! Non entra! Ma no, si tratta solo di scivolare un po’ più in basso, con un’inclinazione del cazzo differente, anche se capisco, essendo così duro... Non divaghiamo. Impugno da dietro il suo cazzo, lo punto correttamente, e il resto lo fa Santi, come si deve. Una spinta dei suoi fianchi ed è già dentro fino in fondo. Gemo e sorrido. Dico: “Sì”. Comincia a ingropparmi con un bel ritmo costante, colpi secchi e profondi. E io cambio pianeta: sento il buco godere, le mie viscere godere, il corpo vibrare all’unisono finché tutto quel piacere concentrato nel culo, continuo, insistente ed esaltante, si espande e arriva al cervello. E lì scoppia. È il mio vero orgasmo, quello che non si vede ma che io sento, eccome.
Consapevole del bene che mi sta regalando, Santi continua e picchia duro. Finché lo sento sussurrarmi: “Lo vuoi un bel dildo?”. Ah, monello! Preparavi una sorpresa. Infoiato dico di sì. Se ne va nella stanza a fianco, lo sento rovistare. Non voglio che ci siano pause e sono tutto culo, perciò, nell’attesa, non prendo un caffè nè mi accendo una sigaretta ma, più propriamente, mi metto tre dita in culo, stramaledendo il fatto di non averle più lunghe e più grosse. Finalmente torna. “Ti stai già mettendo le dita in culo? Non puoi proprio farne a meno...”. E sorride. E adesso, sì, mi sembra la Bestia. Ha in mano il dildo e me lo porge. Dimensioni equine. Vuole vedere come lo succhio. Ci srotola sopra un preservativo e io ci troieggio un po’. È matematicamente impossibile che entri tutto, ma lascio fare all’esperto. 
Sono di nuovo a quattro zampe e Santi armeggia dietro di me. Il dildo è freddo, lo sento entrare e dilatarmi le viscere ancor più di prima. Dopo un po’ allungo una mano dietro per sentire quanto è entrato e constato che siamo quasi al bordo del preservativo, manca ancora un po’ per arrivare fino in fondo. “Ho un amico che riesce a infilarselo tutto”, mi dice Santi con voce strozzata. Era la frase da evitare. “Ah, sì?” gli rispondo, riprendendomi dal trance. “Mmm-mmmh”. Ma è troppo tardi, subentra il pensiero dell’altro con lo stesso dildo in culo e sento dolore. Non dico nulla, ma Santi sembra percepire tutto. Mi toglie l’arnese, poi contempla il buco con aria soddisfatta e ci infila il suo cazzo. Mi scopa di nuovo, ma io mi sento il culo così largo che mi sembra che Santi ci navighi quasi dentro. Buon viaggio, Santi. E allora alla pecorina, poi di fianco con lui dietro poi persino in una contorsione per me inedita nella quale mi trovo io con il busto sul letto e il culo in aria e lui, in piedi da sopra che me lo sbatte dentro e ride e mi dice “troia, sei una troia”.
Smette, si stende al mio fianco e si toglie il preservativo. Si masturba, mentre io mi infilo di nuovo il dildo, tanto per non restare disoccupato, e gli succhio un capezzolo. Poi passo a leccargli i coglioni mentre lui, con la mano libera, cerca di muovere il cazzo di gomma dentro e fuori del mio culo. Sento che ansima sempre più forte, finché: “Voglio chiavarti, dài”. Come no, Santi, non vedi che è proprio ciò che desidero? Allora la posizione questa volta la decido io e mi metto disteso a pancia in su, le gambe ben divaricate con le ginocchia che quasi toccano il mio petto. Mentre si infila un altro cappuccetto, guarda il buco e lo accarezza. Ora mi sento davvero completamente aperto. Entra e muove rapido il bacino, questa volta in maniera molto violenta. Si china sopra di me e mi fotte così, schiacciandomi col suo peso. Metto le mani sul suo culo, sfioro la parte alta delle cosce muscolose e ora tesissime. Grugnisce, ansima e mi sbatte senza fermarsi un attimo. Io non ce la faccio più e - miracolo! - vengo semplicemente grazie allo sfregare del suo ventre contro il mio cazzo. “Sto venendo”, lo avverto. Lui allora accelera ancora il ritmo, prolungando il mio orgasmo, poi sfila rapidissimo il cazzo, si toglie il preservativo e schizza sul mio torso.

“Cazzo, che scopata”.
“Dillo a me. Non so davvero cosa mi fai...”.
“Non lo sai? Lo so io...”.
“Scemo”.