sabato 16 giugno 2012

Due

Il giorno dopo le dichiarazioni del calciatore che dice quello che pensa, in un momento di pausa, lancio a V. un’affermazione che suona più o meno così: “Certo che se Cassano è in nazionale, sono problemi loro. Andrebbe curato”. Ho il sorriso sulle labbra, m’illudo forse di raccogliere un commento altrettanto duro e la solidarietà di una collega che credo amica. “Io non penso che sia malato e che volesse davvero dire quello che gli attribuiscono”, mi lancia, seria.
Ecco, io non finirò mai di stupirmi, e d’incazzarmi anche, davanti a persone capaci di trovare qualsiasi scusa, anche la più palesemente idiota, pur di giustificare un omofobo. È qualcosa che va oltre ogni possibile mia comprensione: perché solo con gli omosessuali possiamo permettercelo? “Hanno eletto un negro alla Casa Bianca? Problema suo”: possiamo immaginare che qualcuno faccia una simile dichiarazione alla stampa senza che si sollevi contro di lui - e giustamente! - un coro di voci indignate? Eppure, se un’affermazione del genere riguarda i gay o le lesbiche, sembra che sia meno grave, perché le responsabilità vanno cercate, di volta in volta, non nel soggetto che la pronuncia, ma: nell’ambiente che frequenta, nell’educazione che ha ricevuto, nella cattiva interpretazione dei giornalisti, nel fatto che la persona in questione è stata “provocata” da pennivendoli maligni, nell’eccessiva (seppur ammirevole, dicono) schiettezza del personaggio,... Una serie di scuse penosissime che, guarda caso, pochi si sognerebbero d’invocare in altri casi di discriminazione, di razza, per esempio, di religione o di genere. “Ti hanno violentata? Anche tu però, girare per strada vestita in quel modo...”.
Quello che perfino persone a noi vicine ci comunicano, insomma, è che l’omofobia è meno grave del razzismo o della discriminazione di genere, e quindi che essere omosessuali è, in fin dei conti (anche se non te lo dicono mai direttamente), una condizione d’inferiorità, che il problema, sotto sotto, è nostro e non di chi ci offende, ci nega diritti, ci picchia. “Forse l’omofobo sei tu, che ti senti ingiustamente attaccato”, mi dice infatti V. per coronare il suo discorso, dopo che il tono è salito di molti livelli ed è sul punto di trascendere. “Ma vai a cagare!”, le dico allora io, e me ne vado per i cazzi miei.
“L’aggressore aggredisce la sua vittima” è un po’ come dire che A più B fa C. Tuttavia, l’omofobia è talmente radicata nella nostra società, che persino una persona che ci conosce bene e con la quale abbiamo diviso momenti importanti della nostra vita, può uscirsene dicendo che, in quanto omosessuali, siamo eccessivamente sensibili, e che in realtà non vogliamo ammettere che A più B può anche fare D o E o F. Viene in mente la battuta sul razzista, applicata questa volta all’omofobia: “Non sono io che sono omofobo, sei tu che sei gay”. Più cerchi di spiegare loro in che errore logico sono caduti e che il problema si chiama omofobia interiorizzata, meno capiscono e più ti accusano. È il mondo alla rovescia.
Quando faccio ritorno a casa, accendo il computer e, ancora alterato per la recente discussione, compiendo un gesto quasi automatico, mi metto in chat. Dopo poco, mi scrive C.: “Ehi, bello, come va, cosa stai facendo?”. “Rodendomi il fegato, ragionando intorno a omofobia e relazioni umane. Robetta. E tu?”. “Niente di particolare, adesso volevo ascoltare un po’ la radio e poi schiacciare un pisolino. Se vuoi passare qui, più tardi...”. “Più tardi non posso. Se fosse per me sarei già lì. Mi va di stare tranquillo, chiacchierare con calma...”. “Allora vieni adesso”. “Sicuro? Così non ti lascio riposare...”. 
Tre quarti d’ora dopo sono a casa sua. Mi apre in maglietta e boxer. Subito dopo aver chiuso la porta, ancora nell’ingresso, ci abbracciamo a lungo, ci baciamo delicatamente, ci carezziamo. “Quanto tempo...”, mi dice C. mentre mi lecca, inconsapevole, le ferite. Passiamo in cucina per prendere qualcosa, ma ricominciamo subito ad abbracciarci. Sotto i boxer sento la sua erezione. Cerco un pretesto per distrarlo: “Ho portato delle albicocche, era l’unica cosa commestibile che avevo in casa”. “Ma dai, che gentile che sei” mi fa lui, complimentoso come sempre.
Prendiamo due bicchieri, un po’ di succo d’arancia, le sue sigarette, l’accendino, e ci sediamo sul divano. La radio, collegata allo schermo televisivo, è sintonizzata su un canale nazionale. Gli chiedo se può rollare una canna e lui: “Con gran piacere!”. Alle prime boccate già sento i muscoli rilassarsi, la mente distendersi. Appoggio la testa sul cuscino del divano e cominciamo a parlottare piano. 
Dopo qualche minuto mi propone di mettere un po’ di musica su Youtube. Con la tastiera del computer si sposta rapido nello schermo mentre una voce sintetica legge le varie linee sulle quali sta passando il cursore. Predilige i cantautori, ma adora anche la musica classica. “Perché non mi metti qualcosa che piace a te?”, mi chiede dopo un po’. “Perché mi vergogno tremendamente”. “È che a me piace condividere. Ognuno deve accettarsi per quello che è, no?”, mi lancia lui. E allora gli faccio ascoltare una canzone che anni fa mi provocava, ogni volta che la sentivo, una subitanea lacrimazione ed io sinceramente penso che non gli piaccia affatto. Qualcosa stona tra noi, immagino che si tratti di lunghezze d’onda diverse. “Suona qualcosa per me, ti va?”, gli chiedo. Allora si siede al piano ed esegue due movimenti di una sonata di Mozart. A parte alcuni punti della partitura in cui la memoria gli fa difetto, a me sembra che suoni molto bene e glielo dico. Mi lascio rapire dalla musica, mi distendo sul divano e chiudo gli occhi. Sto vedendo adesso le stesse cose che vede lui?
Poco dopo andiamo nel suo cortile, dove, con l’aiuto di un amico, ha sistemato l’orticello di pomodori, zucchine e melanzane. Per me quel posto è una specie di oasi in mezzo alla città, un posto dove respirare tranquillità. Bagniamo le piante e poi ci sediamo al grande tavolo, a fumare. Mi piace stare lì, ma me ne sto troppo a lungo in silenzio, sicché mi chiede di che cosa volevo parlare quando ci siamo scritti in chat. “Di niente”, rispondo, ma gli spiego brevemente quel che è successo, senza l’intenzione di voler approfondire l’argomento. Gli chiedo piuttosto di raccontarmi come è arrivato ad accettarsi come gay e lui mi spiega che la prima volta è stata pura casualità, che lui fino a quel momento era stato con ragazze. La nuova esperienza gli era piaciuta così tanto che il suo orientamento sessuale era emerso allora spontaneamente. “Invece, prima di stare con le ragazze, non ero niente, ero asessuale”, mi dice. “Sul serio?”, gli faccio io, incredulo.
Tra un silenzio e l’altro terminiamo le sigarette, e così, dato che devo andarmene, mi propone di accompagnarmi e comprarsele. Bastone bianco sotto braccio, quando siamo fuori mi prende a braccetto e cammina con passo deciso: “In mezzo, in mezzo alla strada!”, mi fa, “è più comodo che il marciapiede. No?”. Ed io penso, per l’ennesima volta, di cosa avrà mai paura questo ragazzo che in apparenza (solo in apparenza) è circondato dal buio. Quando arriviamo dal tabaccaio gli chiedo più volte se posso comprargli io un pacchetto, allora lui cede ma rilancia: “Va bene, però adesso andiamo a prenderci una birretta, e offro io”. E così in poco tempo arriviamo al bar della grande piazza vicino a casa sua. Il gestore ci saluta calorosamente e ci fa sedere. Inizio a sentirmi meglio, meno pensieroso e più allegro.
Allora squilla il cellulare: è R. Non rispondo ma, quasi senza accorgermene, getto uno sguardo all’orologio. Tra un po’ me ne vado.


***
Cerchi per caso il primo episodio di questa insensata trilogia? Di qua, prego.

5 commenti:

  1. mi chiedo che succederà tra due post
    Continuo a leggerti

    RispondiElimina
  2. Tra uno, tra uno. Non è previsto lo zero.
    Grazie!

    RispondiElimina
    Risposte
    1. da bravo ingegnere parto sempre a contare da zero :P ok, allora, aspetto il prossimo

      Elimina
    2. :-) Eccoti accontentato, ciao.

      Elimina