mercoledì 30 maggio 2012

Del (non) vedersi

Troppo in fretta Milk, troppo veloce, tira sul freno, forza. Pazza idea, quella di accettare il suo invito ad uscire con i suoi amici. Saper dire di no, ogni tanto, Milk? 
Ci ritroviamo io e lui all’uscita della metro. “Ma sai da che parte dobbiamo andare?”, gli chiedo io, che ci vedo benissimo. “Sì, attraversiamo la strada a qualche metro da qui, prendiamo la via di fronte e poi giriamo alla seconda a destra”. Mi prende sottobraccio. Guida lui. In qualche attimo arriviamo così alla più bella piazza di questo meraviglioso quartiere, quella quadrata con gli alberi, vicino alla quale mi sarebbe piaciuto abitare. Le terrazze dei locali che la circondano sono piene di gente e in mezzo, tutto intorno allo spiazzo sterrato dove corrono cani e adolescenti in bicicletta si esibiscono in ardite acrobazie, decine di ragazzi se ne stanno seduti sulle sporgenze in pietra o in piedi, chi con la sigaretta, chi con la lattina di birra, chi con magiche spezie. Tutti parlano, ridono, si sorridono. 
Mi viene presentata la compagnia di C. Lo salutano e lui mi introduce via via alle varie persone. Il gruppo è vario e sembra ben consolidato: quel ragazzo è del sud, se ne va lontano tra qualche giorno per lavoro e non tornerà prima di un anno; quell’altro è il ragazzo che ha aiutato C. a piantare zucchine e pomodori nell’orticello del cortile di casa sua; quella è la sua ragazza, voce da attrice di pubblicità, monocorde ma entusiasta; del ragazzo greco (no, non è quello alto, quello è un altro) ho già dimenticato la faccia; e questo è il giornalista disoccupato, un ragazzino biondo, capelli lunghi sopra e rasati ai lati, piccolo, magrissimo, glabro, ma con barbetta di due giorni, orecchino al naso, molto carino; e poi altra gente e due tedeschi in coppia, due bei maschietti dall’aspetto gentile, amici di non so più chi e capitati lì non so più bene come.
Girava un’ottima maria in tre canne che facevano la spola da un’estremo all’altro della sporgenza in pietra. “Che bene mi sta facendo”, gli sussurro riferendomi al fumo. Ma dura un attimo. Sono tutt’occhi e non posso fare a meno di chiedermi come mi staranno giudicando; chissà se alcuni di loro pensano di poter sostituire i loro occhi ai suoi. (Sarà adatto a lui? Certo, parla pochino eh. Mi sembrava rigido. Hai visto come teneva stretta a sé la borsettina? Ma dov’è che l’ha beccato questo? Eccone un altro, vediamo quanto gli dura).
Elucubrazioni. Stupide, stoltissime, lo so. Ma si fissano nella mia testa. Ed è il mio errore: gli occhi che si posano a quel modo su di me, sono in realtà i miei, mentre m’inganno e confondo la loro percezione con la mia. E nel frattempo, cosa vede C.? Mi accarezza più volte il braccio, la mano, e mi sembra contento che io sia lì. È seduto alla mia destra. Fletto la gamba sinistra, porto il ginocchio vicino al mio petto poggiando il piede sul bordo della sporgenza. Mi costruisco un séparé umano e autarchico per difendermi un po’. Da che cosa, non so bene. Dagli sguardi, suppongo. Dalla vista. Dal giudizio. Del resto, darci un po’ le spalle (non molto, solo quel poco perché la conversazione non ci lambisca) riesce molto bene anche a loro. Per brevi attimi ci siamo solo noi e le nostre due voci si parlano vicine, formiamo una bolla.
Qualcuno la buca di tanto in tanto. Forse l’imbarazzo è reciproco. Forse è più facile per alcuni di loro rivolgergli la parola, salvo poi dimenticarsi di ascoltare la sua risposta. Ho visto C. parlare al vuoto per due volte e io magari esagero e sono proprio una testa di cazzo, ma mi è sembrata una bella vigliaccata. Alcuni pensano (forse, è solo un’ipotesi) che chi non ti vede non possa accorgersi di cosa loro stanno facendo davvero, un po’ come se questa persona sparisse di colpo (non mi vede, quindi non la vedo; quasi una punizione). Io credo che si sbaglino, perché non vedere non vuol dire non esserci. Io credo che certe cose C. le veda più e meglio di me, di loro. “Ti trovi bene?” mi chiede lui, infatti. Io mento. Poco dopo: “Ti vanno a genio?”. Mento un’altra volta, tuttavia se fossi sincero non direi nessuna cattiveria, ma solo: “Ho bisogno di tempo. Per sapere questa e altre cose”.
(C. è un uomo d’avventura. C. ha deciso di fregarsene, probabilmente già moltissimo tempo fa. Un giorno al mare, spiaggia nudista, si butta in acqua con un amico suo, costretto anch’egli ad aguzzare l’udito, e cercano nuotando l’alto mare finché l’unica cosa che sentono è lo sciabordare dell’acqua tutt’attorno a loro. Dove sarà la riva adesso, che non si sentono più gli schiamazzi, il vociare diffuso, il rumore delle palline da ping pong che battono sulle racchette di legno? Come si torna indietro ora? “In una spiaggia naturista, due ciechi che si perdono in mare...”, e C. si fa una gran risata pensando a quanto si era divertito quella volta).
Alla fine rimaniamo solo C., il ragazzo che parte ed io. Il suo atteggiamento è diverso, sembra più affettuoso di quello degli altri. Scambiamo quattro chiacchiere e la conversazione scorre finalmente fluida, più rilassata. Salutiamo il ragazzo che parte‚ nel corridoio della metropolitana. Rinviamo a un altro giorno un possibile incontro più intimo, perché ormai è tardi e lui domani deve uscire di casa alle otto meno un quarto. “Ma muoio dalla voglia”, mi dice. “Anch’io vorrei farlo”, gli dico. E stavolta non mento.
La sensazione che mi resta mentre già seduto nella carrozza mi sbatto in cuffia a tutto volume la prima cosa che mi capita a tiro, sperando mi riempia il cervello, ha un sapore molto sgradevole: e se la cecità di C. fosse il buon pretesto per nascondergli quell’indegnità e quella mediocrità che sento mie? È un brutto pensiero che adesso per fortuna è già svanito. Paradossalmente è proprio C. che mi sta aiutando ad aprire gli occhi, a capire che tutto si sente e ben poco si vede.

2 commenti:

  1. e, attraverso i tuoi occhi, vedo con gli occhi suoi...

    RispondiElimina
  2. tutto inutile milk...
    i ciechi hanno un vista interiore migliore dei vedenti..

    RispondiElimina