sabato 11 febbraio 2012

Mani in pasta (ogni scusa è buona)

In amore e nel sesso fa sempre bene un po’ di creatività. Così, siccome lui è “timido” e non dico non chiama, ma nemmeno scrive se non direttamente sollecitato, me ne faccio una ragione una volta per tutte, mi rassegno al mio ruolo (ti cerco, cercami - non ti cerco, cercami) e decido... di bere un po’ più del solito.
“Sai cos’ho sognato stanotte? Eri un pasticciere...”, mi dice Val ieri a pranzo, non risparmiandosi i dettagli. Non è la prima volta che mi sogna e anche a me è capitato di vederla co-protagonista d’incredibili e ben più erotici deliri notturni, frutti saporiti della fase REM. Che coincidenza, cara Val, proprio oggi che volevo friggere un po’ di chiacchiere! Così, un bicchiere di rosso dopo l’altro (un bicchiere di troppo dopo l’altro), prende forma il piano di riavvicinamento al corpo (e a un pezzetto d’anima, forse) di R., lo sfuggente.
“Val, io me ne vado”.
“Di già?”.
Ovvio. Non ho forse molto da fare in casa? Gli ingredienti sono: farina, burro, uova, latte,  un goccio di grappa o rum, zucchero, un pizzico di sale e ovviamente olio per friggere. Mani in pasta. Mattarello per spianare l’impasto, rotellina per ricavarne rombi dai bordi zigrinati e taglietto nel mezzo. Frittura. Zucchero a velo. Whatsapp.
“Ho appena finito di preparare un dolce di Carnevale. Vuoi provarlo?”.
“Sono ancora al lavoro, oggi recupero. Sei da solo?”.
“Per il momento sì, ma preferisco portarlo a casa tua”.
“Allora alle 5,30, solito incrocio, passo con la macchina, esco adesso”.
“Hai un liquore?”
“Sì, uno alle erbe”.
“Sei sicuro che ti va?”.
“Che cosa, il dolce o il sesso?”.
“Ok, vado”.
La mia borsettina a tracolla sembra la tasca di Eta Beta, qualsiasi cosa pensi di metterci dentro, ci sta. Chiacchiere comprese. Allora via, fuori di casa, quasi di corsa fino alla metro e in tempo record vengo catapultato nel suo quartiere. Bip-bip: sono in ritardo; non importa, parcheggio e ti aspetto fuori. Accelero il passo, ci siamo quasi. All’incrocio del suo isolato, chi ci trovo? S., appena uscito di casa, cappotto scuro, sigaretta in bocca.
“Ciao bello!”, gli dico. Nel suo caso, non è solo un modo di dire.
“Ehi, come va?”.
“Bene. Dove stai andando?”.
“Al cinema, con amici. E tu? Vai a trovare R.?”. Mi sorride malizioso (no, complice; no, empatico). Accenno un sì. “Salutamelo, allora”.
Corro e lo trovo davanti al portone, valigetta in mano.
“Non serve correre tanto”. Sì che serve. Sorrisi a novanta denti. Luce negli occhi. Chiave nel portone, poi passo l’uscio di casa per l’ennesima volta. Mi sciolgo di nuovo. Sto bene qui e non riesco a pensare ad altro che a questo: sto bene. Ci tocchiamo ancora e a me sembra un miracolo. Un altro. Mani sulla testa, tra i capelli. Le guance. La barba. Nelle mani. Sul braccio. Non mi sembra vero e non riesco a pensare ad altro che a questo: non mi sembra vero. Scambiamo qualche parola: è stanco, ha dormito poco stanotte, ha ancora i postumi dell’influenza. Ma ci sono io qui. La tua pelle è morbida. Sto bene, non mi sembra vero.
“Adesso non ho fame, preferisco mangiare dopo la...”. Scopata. Ridi. “Va bene, allora passiamo alle pulizie!”. Mi spoglio in fretta e, siccome vedo che tergiversa, mi fiondo nella doccia senza aspettarlo. Acqua calda, vapore. Mi raggiunge. Parliamo molto meno del solito e a tratti ci sorridiamo, un po’ ebeti (“timidi”). Dopo qualche minuto siamo sotto le coperte, nudi e infreddoliti, i capelli ancora umidi e i corpi titubanti. Si gira su un fianco, dandomi la schiena (“mmmrrh?”, quasi come un gatto). A me l’iniziativa, dunque? Ma con molto piacere, R.!
Lo accarezzo un milione di volte: le spalle, i fianchi, il culo, il collo, le gambe, le spalle, le braccia, la mano, il culo, il collo... Premo i pollici simultaneamente vicino alle sue scapole, massaggio le spalle, passo gli indici lungo la spina dorsale. Insinuo la mano tra le sue natiche, la sfrego contro il buco. Emette brevi gemiti sommessi con la bocca chiusa. Ha gli occhi chiusi. Un dito sfiora accidentalmente la cappella che sporge da sotto il suo bacino, gonfia e rossa. Gli piace. Ho la vista e il tatto inebriati dal suo corpo, non riesco a fermarmi e ogni neo, ogni punto rosso sulla sua schiena sono altrettanti appigli per i miei sensi. Lo lecco, dal culo su su lungo la schiena, fino al collo e all’orecchio. Con la sua mano cerca un contatto, io faccio strusciare la parte bassa del mio corpo contro le sue gambe e il mio cazzo duro preme contro le sue natiche.
Si alza sul letto, si erge restando in ginocchio. Gli sono dietro, anch’io in ginocchio, e adesso lo cingo con le braccia, ben stretto a me. Ci baciamo, bocca contro bocca, ansimando, mentre con una mano gli solletico un capezzolo. Ha il cazzo duro e la mano scende anche lì, a sfiorare le palle e a menarglielo lentamente.
Si stacca da me, prende dal cassetto il lubrificante e io mi ritrovo del tutto logicamente a quattro zampe. Lavora il mio buco con le dita, ma per pochissimo. La posa del cappuccio avviene molto prima del solito e io godo anche solo nel vedere come lo srotola sul suo uccello in tiro. Si mette dietro, mi afferra per i fianchi, punta la cappella e mi penetra. Fino in fondo, subito, con decisione. Comincia il movimento avanti e indietro, dentro e fuori, ed è quando dà un colpo secco fermandosi per un po’ col cazzo piantato fino in fondo al mio culo che godo davvero. “Sì”, ripeto più volte. Dopo un po’ mi chiede di appoggiarmi alla parete: “Voglio che stai più su con la schiena, mi piace vederti così”. E ricomincia la sua cavalcata. È così energica e a me piace così tanto che io perdo un po’ di sborra, pur senza venire. Poi lo tira fuori, mi afferra per una spalla per farmi allontanare dalla parete e mi spinge la schiena verso il basso, perché mi sistemi a pancia in giù. Me lo sbatte dentro e io sporgo il culo per offrirglielo meglio.
A un certo punto pare arrendersi: “Ho bisogno di riposare un po’”, mi dice adagiandosi su un fianco e trascinandomi parallelo al suo corpo. Continua a penetrarmi, però fiaccamente. Sei stanco? Ci penso io, non preoccuparti. Faccio uscire il cazzo dal mio culo, faccio stendere R. a pancia in su e gli lecco un capezzolo, mentre con una mano sfioro l’altro. Ormai conosco il segreto. E infatti si riprende rapidamente, mi fa mettere di nuovo a pecorina e mi penetra. Mi stuzzica: toglie il cazzo e allarga le mie natiche, osserva il buco, lo vuole vedere aperto, ci gioca con le dita e con la punta del cazzo, che fa roteare sul bordo. Poi è di nuovo dentro e adesso lo sento grosso. Sono pieno di lui e godo. Il ritmo e la forza con cui mi sta inculando aumentano poco a poco. Non mi avvisa, ma viene ansimando e dando dei colpi molto forti. Sborro a mia volta spandendo seme sulle sue lenzuola e sorrido (dentro e fuori: la felicità pulsa nel mio culo e nella mia testa).
Resta sopra di me, il cazzo infilato dentro, e mi bacia mentre qualche spasimo ancora lo scuote. È serio quando fa uscire il cazzo, badando a non sfilare il preservativo, e corre in bagno a lavarsi. 
Le chiacchiere sono fini e croccanti. Che buone, mi dice. E se ne fa una bella scorpacciata, accompagnandola con il liquore alle erbe fatto dal padre di una sua amica: “È in pensione, si annoia”. Ce ne serviamo due volte. Il mondo là fuori può aspettare.
Anche qui ci sono dolci tipici di questo periodo, mi dice. E mi annota su un foglio i nomi di quelli della sua regione. Parliamo di cinema. Mi consiglia due film, dello stesso regista. “Surreali, anche se sembrano parlare della vita quotidiana. Tutto sta nella fotografia”. Poi prende i dvd: “Tieni. Te li presto, se vuoi”. Voglio.
Qualche minuto dopo, sono seduto davanti al computer, perso a osservare le sue foto ("luglio 2011", c’è scritto), ma la realtà torna a farci visita: vado a un incontro con un fotografo. Io devo tornare a casa. Dài, ti accompagno un pezzo a piedi, poi prendo la metro. Va bene, bestiolina. Andiamo? Andiamo. Dammi un bacio, dài. Ciao bestiolina, divertiti. Ciao [sorride e sembra contento; sfumare al nero, prima che si giri].

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