martedì 21 febbraio 2012

La colpa è mia

V.

Il giorno non durerà ancora a lungo, di questo pomeriggio ne resta solo un po’. Questo agosto volge al termine, penso, già vedo le giornate farsi più corte, mesto annuncio del mio prossimo ritorno alla popolosa città. Lì cercherò ancora, forse con un po’ di stanchezza, un mio scampolo d’estate. 
Di sesso. È che qui oggi, a parte una toccatina fugace al simpatico pisello tutto glande e niente cervello di un tizio per il resto repellente ed appiccicoso, non è che abbia rimediato granché. A parte i bagni di luce e d’acqua. Preziosi, certo.
Il mare è calmo ed è lontano. Le dune qui sono imponenti e si spingono via dalla costa, strisciando verso l’entroterra. Lì si popolano di ginepri grandi come alberi e di una macchia mediterranea a tratti molto fitta. Sì, questo è il Mediterraneo, non c’è dubbio, com’è vero che io sono nudo, disteso sul telo da bagno vicino al mio ragazzo, nudo anche lui, la pelle ormai abbronzata che riflette i raggi del sole sempre più tenui. Come sono vere le due torri diroccate agli estremi di questa baia, che da secoli aspettano vascelli che non sono mai giunti. Ed è indubbiamente reale anche quel ragazzo che adesso avanza verso di noi, scalando la collina di sabbia. Gli ultimi passi sono incerti, arranca malamente dove la pendenza si fa più forte, poi getta il suo zainetto a qualche metro da noi, solo un po’ più in alto. Si spoglia completamente.
Siamo sulla duna più alta ma lui è nella posizione privilegiata: domina, come le torri, una vista a trecentosessanta gradi. Eppure non ci osserva. Apparentemente. Non è lì “per quello”, sembra comunicare. Già, certo, come no.
“Non è una vecchia conoscenza, questo?”, chiedo sottovoce al mio ragazzo.
“Sì, è quello che mi sono fatto l’anno scorso qui sotto. Che poi, fatto... una seghetta”.
Ora ricordo meglio: questa faccia di Cristo versione non sofferente ma gaudente, abbastanza piena anche se scolpita dalla barba e incorniciata dai capelli castani, lisci e lunghi fino alle spalle, girava come un dannato alla ricerca di non si sa cosa. Perché non si fermava mai, nemmeno per contemplare le gustose scenette messe in piedi da quell’assortimento di uomini affamati di cazzi, di mani, di occhi, di palle, di culi. E così il mio ragazzo l’ha adescato con semplicità, chiedendogli qualche dato anagrafico condito dalle preferenze in fatto di sesso, quelle generali e quelle contingenti. Timidezza o ritrosia che fosse, tutto terminò, ora ricordo, sì, con un mano a mano. Questo mi disse, visto che non partecipai, né vidi il quadretto.
Un anno mi sembra più che sufficiente per aspettare la rivincita. È il mio turno. Zip dello zainetto aperta, afferro una bustina con un preservativo e un’altra di lubrificante. Mentre mi alzo e gli sfilo quasi a fianco dimenando il culo un po’ più del solito e sentendomi davvero libero oltre che molto eccitato, predispongo il mio animo a quello che verrà o meglio che deve accadere, l’incontro. È che il tipo - non avrei mai pensato di rivederlo - mi attrae sul serio: non è molto alto, anzi, è un po’ tarchiato, ma a parte quella faccia da Messia di provincia, nutrito probabilmente a prosciutti e salsicce, di lui mi piacciono molto le gambe, forti e tornite e quei coglioni così grossi, penzolanti e morbidi, sui quali ho messo gli occhi più o meno trecentosessantacinque giorni fa. Ha pochi peli, chiari. Concludo che è un bel manzo e che, se ha la stessa fame che ho io in questo momento, non tarderà.
Infatti mi apposto in una radura che si trova sulla sinistra del cammino che parte dalla sommità della duna e da lì lo vedo scendere a sua volta, un po’ guardingo. Quando si accorge che lo sto osservando, distoglie rapidamente lo sguardo, accelera il passo e gira nella radura antistante. Lo seguo, però lentamente, per non dare l’impressione di volergli stare addosso: lo marco a vista, ma con discrezione. Lo perdo per un attimo, poi lo vedo fermo tra i cespugli. Dal cazzo molle esce un fiotto giallognolo. Sta pisciando. Finita l’operazione mi passa a fianco, io rimango fermo. Si allontana rapidamente. Vuol forse farmi credere che è venuto qui solo per pisciare?
Iniziamo così un estenuante nascondino, giocato a corpi nudi, aggirandoci come animali nel bosco e fiutandoci a vicenda: lui se ne va oltre la collina, io lo seguo; torna a stendersi sul suo telo da bagno, io resto nella boscaglia; si muove in avanti, lo precedo; retrocede, lo mando a cagare. Sto quasi per desistere, uscire dalla radura dove sono tornato a infilarmi e proseguire oltre, verso una coppietta che sta prendendo il sole più lontano e che non sembra esser lì “per quello” anche se non si sa mai, quando giro un po’ la testa e... lo vedo a qualche metro da me. Fermo, piantato in mezzo allo spiazzo, le gambe leggermente divaricate, lo sguardo perso in un punto indefinito davanti a lui. La posa è quasi statuaria, soprattutto grazie all’immobilità, all’indifferenza. “Questo crede di non essere gay”, penso. Possibile? Eppure di anni ne avrà sui trenta, non quindici. Il cazzo mi segnala, con spontaneo turgore, che non è il momento di pensare ai problemi esistenziali altrui. Comincio a menarmelo e intanto faccio due passi, poi altri due, poi altri due. Mi avvicino lentamente e vedo che anche il suo uccello è diventato duro e che lui mi osserva, anche se di tanto in tanto volge lo sguardo verso l’entrata della radura, non sia mai che qualcuno lo veda.
Gli sorrido, mi sorride. Ha una voglia tremenda, ma non si tocca. Non parla. “Ciao”, provo. “Ciao”, mi risponde. Ora lo posso sfiorare. La mia mano è già sul suo cazzo per far scivolare su e giù la pelle sulla cappella più rossa che io abbia mai visto. Ha una bella mazza ben proporzionata e i peli sono accorciati. Su e giù, su e giù con la mano. Lo vedo sorridere, ma non riesco a non fissare i suoi coglioni, che a ogni movimento della mia mano vanno avanti e indietro. L’altra mano adesso posa in terra le bustine fin lì custodite e accarezza le palle, le stringe e le tira verso il basso, poi le rilascia e torna a comprimerle. M’inginocchio e assaggio, prima con la lingua poi con le labbra schiuse, quei coglioni lisci. Odore di sesso. M’inebrio. Lo guardo, mi guarda. Gli piace. Il suo cazzo che batte sul mio viso mentre lo lavoro con la bocca più sotto. Gli piace. Risalgo rapido con la lingua lungo l’asta, mi aiuto con la mano destra e me lo ficco in bocca. Spompino e mugolo, mugolo e sbocchino. Di lui non percepisco alcun suono, solo intuisco che ora ansima più forte.
Ha visto la gomma e il gel? Ha capito che sono lì proprio per quello? Non farà niente che io non voglia, questo attivo inattivo, questo non gay, forse bisessuale o forse eterosessuale per tutti ma non per me, qui, in questo momento. Potrei passare la vita intera a succhiargli la minchia senza vedere una goccia della sua sborra, perché lui non farà niente che io non voglia: la colpa deve essere mia. Se si fa spompinare da un ragazzo, è perché il ragazzo ha voglia, non perché lui lo desidera.
Allora fuori la nerchia dalla mia bocca. Mi alzo, gli do le spalle: guarda questo culo; adesso te lo fai. Adesso ti porgo le bustine (le sai aprire, quelle?) e tu ti metti il preservativo, mentre io mi sporgo leggermente in avanti e con le mani allargo le natiche. Guarda questo buco, ha voglia del tuo cazzo. Accontentalo, fagli questo favore.
Si spalma il lubrificante sul cazzo, gli prendo la bustina per mettermene qualche goccia sul dito e bagnare il culo. Ho il buco dilatato. Sono aperto, puoi entrare. Un colpo. Brucia. Un altro colpo, grido. Scivola dentro. Ha le mani sui miei fianchi, mi afferra, comincia ad andare dentro e fuori. Lo sento dentro e godo. Inizia ad accelerare, dà colpi più forti, in quella posizione ondeggio e quasi perdo l’equilibrio.
Mi giro di scatto, il cazzo mi esce dal culo, mi guarda stupito e subito mi riacciuffa i fianchi con le mani. Hai paura che me ne vada e che ti pianti qui, cazzo in tiro, senza aver concluso? È proprio matto. “Vieni”, gli dico, mentre mi avvicino a un albero, allungo le braccia e appoggio le mani sul tronco, divarico le gambe e sporgo il culo. Mi sembra di avere un buco enorme e adesso quello che voglio è solo il suo cazzo dentro fino in fondo. Me lo rimette dentro d’un colpo e m’incula. Forte. Ansima sempre più e a me piace da morire allungare una mano sotto la mia pancia, oltre il mio cazzo e carezzargli i coglioni mentre lui va sempre più forte e me li sbatte contro.
Un suono strozzato e piccoli colpi con cazzo ben piantato nel mio culo: sta sborrando. Porto la mano al mio uccello, due o tre movimenti e sento il buco pulsare, il cazzo contrarsi ritmicamente e il bianco cadere in terra. Sto ancora ansimando che lui già lo sfila. Lo vedo togliersi il preservativo, lasciarlo cadere e poi “ciao”, mi dice, e già si allontana.
Ciao, uomo. Al prossimo anno.


Altre mie avventure estive? Qui.

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